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Fazio-Saviano, addio arrogante

Ieri nell'ultima puntata di Vieni via con me il saluto arrogante: "Chi non si è sentito rappresentatao da questa trasmissione può farne un'altra". Il Nord non è mafioso, caro Roberto / Aderisci

Fazio-Saviano, addio arrogante

Roberto Saviano e Fabio Fazio si sono giocati tutto nelle prime tre puntate di Vieni via con me. Ieri sera era l’ultima, volevano tirare fino a mezzanotte, ma la Rai li ha limitati entro il solito orario, e gli ha fatto un grosso piacere. Esaurite le frecce contro Berlusconi, la Lega e il Nord, alla nuova coppia d’oro di Raitre non sono rimaste che le spente guitterie di Dario Fo alle prese con Machiavelli e un dolente monologo dell’autore di Gomorra sui terremoti che hanno devastato il Meridione, dall’Irpinia all’Aquila. Le ultime energie erano state spese nelle interviste della vigilia. «Ora mi fermo un po’ per cercare di ricostruirmi una vita», ha detto Saviano. La vena creativa è un po’ esaurita.

Ne ha approfittato Fazio. Il quale era stato messo un po’ in ombra dall’astro nascente della «gauche tv». Ieri si è preso la rivincita recitando l’elenco delle cose che ha «imparato facendo questa trasmissione». Un bilancio delle fortunate polemiche che hanno decretato il successo di Vieni via con me, un catalogo piuttosto sorprendente per uno come Fazio, che nella tv di Stato ha esordito e per la quale lavora da anni. «Ho imparato che la Rai è ancora un pezzo importante di questo Paese, anche se spesso dimentica di esserlo; ho imparato che per molti televisione pubblica vuol dire che siccome è di tutti, allora non si può dire niente; ho imparato che per molti altri televisione di Stato vuol dire televisione dei partiti». Ma questo, il presentatore di Che tempo che fa lo conosce da tempo.
«Ho imparato che qualcuno si definisce pro-vita, come se qualcun altro potesse definirsi pro-morte». E poi la sferzata più arrogante, pronunciata con il sorrisino beffardo delle grandi occasioni e la sicumera di chi è consapevole che il servizio pubblico è «cosa sua»: «Chi non si è sentito rappresentato da questa trasmissione può farne un’altra: e noi la guarderemo volentieri». Frecciate anche ai commentatori che in questo mese non gli hanno risparmiato critiche: «Ho imparato che tutti quelli che vogliono spiegarti che cosa piace al pubblico per fortuna non lo sanno». Infine i riferimenti alle polemiche più accese: «Ho imparato che tutti sapevano che al Nord c’è la ’ndrangheta, ma se lo erano dimenticati; ho imparato che nessuno sapeva che la spazzatura del Sud arriva anche dal Nord; ho imparato che le facce della gente comune e le facce della gente famosa spesso sono le facce della stessa medaglia».

Saviano invece abbandona la strada di mettere in scena le inchieste giudiziarie per scegliere una via più drammaturgica: sceneggiare le piccole storie degli otto ragazzi sepolti dalle macerie della Casa dello studente dell’Aquila nel terremoto del 2009. Un altro racconto del Sud, dopo quelli sulla malavita e i rifiuti, mescolato alle memorie dell’Irpinia nel 1980: «Avevo un anno, fu mia mamma a raccontarmi le nottate passate in macchina a mangiare frullati». È l’epopea di una città medievale diventata la risposta ai campus anglosassoni, in cui il crollo dell’ostello universitario simboleggia la perdita di ogni speranza.

Vengono evocate le avvisaglie, i timori, l’incredulità degli studenti e la leggerezza di tanti fatalisti per i quali «L’Aquila trema sempre ma non crolla mai». E poi le denunce contenute nelle perizie ordinate dalla procura, un elenco letto dalla sorella dell'universitario più giovane morto nel disastro. «La Casa dello studente era una bomba a orologeria - dice Saviano -, costruita male, con carenze nella progettazione, nell’esecuzione dei lavori e nei successivi adeguamenti. Nell’ala crollata mancava un pilastro; l'edificio era fabbricato con sabbia e calcestruzzo scadente per dirottare altrove i soldi». «È una tragedia di tutti - sentenzia lo scrittore -. A trent'anni dall'Irpinia sembra di vedere sempre la stessa tragedia, di vedere le stesse cose, di sentire la stessa disperazione, le tangenti, la ricostruzione, le cose che non funzionano».

Viva l’Italia, come ha cantato - più tristemente del solito - Francesco De Gregori.

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