Filippo, il pilota italiano che non voleva fare il militare

Ha lasciato Aviano per evitare la naia. Oggi dirige le operazioni aeree alla base di Kandahar

Kandahar. Nella sua carriera di pilota e soldato, il maggiore dei marine Filippo Williams non si è fatto mancare niente. Ai comandi del suo F18 ha raso al suolo le caserme di Saddam ed infilato missili nelle roccheforti della guerriglia afghana a Ramadi e Falluja. Con gli scarponi da fante s’è insinuato tra le postazioni talebane per “illuminare” e segnalarle ai colleghi in arrivo dal cielo. Ma se gli chiedi perché ha lasciato l’Italia la risposta è una sola: «Per non fare il militare». La storia di questo trentottenne italico maggiore dei marine inizia nel 1969 quando il sottufficiale William “senior”, in servizio alla base Usa di Aviano, sposa la friulana Carla Mengozzi. Due anni dopo, nella base americana di Vicenza, nasce Filippo. Vive ad Aviano, parla l’italiano, studia nei nostri licei, ha decine di amici friulani, ma è pronto ad abbandonare tutto. «Per mantenere la cittadinanza italiana avrei dovuto fare il militare - racconta - ma il mio sogno era volare e all’Università di Aeronautica Daytona Beach c’era un posto per me. Così nel 1988 ho inseguito il mio sogno».
Quel sogno l’ha portato nei cieli dell’Irak e ora qui alla base dei marine dell’aeroporto di Kandahar dove dirige le operazioni aeree in sostegno ai marine sul terreno. «Nei marine devi fare tutto, dopo un periodo da pilota devi calzare gli scarponi e insegnare a chi sta sotto il fuoco nemico a guidare gli aerei sul bersaglio - spiega Filippo con quell’italiano marchiato dall’accento del Nordest -. Prima l’ho fatto sul terreno, ora lo faccio dal computer, ma tra un anno spero di tornare in carlinga». Filippo non lo nasconde: la divisa è il suo mestiere, ma volo e missioni sono la sua passione. «La prima, nel marzo 2003 è indimenticabile. Sono decollato dal Mediterraneo, ho raggiunto la periferia di Bagdad e ho scaricato le bombe su una caserma della Guardia repubblicana. Poi sono rimasto per 40 secondi con gli occhi sulla telecamera. Quando ho ripreso i comandi ero 14 miglia dietro la mia formazione e vedevo gli sbuffi dell’antiaerea irachena. Ma alla fine sono stato l’unico a portare indietro le immagini del bombardamento».
Ma alla fine di ogni missione è nascosto il lato oscuro del suo sogno, la piccola grande paura compagna di tante missioni.

«Qui in Afghanistan sono saltato su una mina, in Irak volavo in mezzo alle antiaeree, da questa scrivania guido bombardamenti a meno di cento metri dai miei compagni, ma la vera tensione resta il rientro notturno sulle portaerei. Per atterrare su quel fiammifero nel mare non puoi sbagliare: quando devo farlo penso sempre alle candele che mia mamma accende per me nella chiesa di Aviano e spero m’illuminino la strada».

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