Dal film al libro con violenza Lenzi gira lo splatter anni ’40

Quando lo incontri sta cercando di sopravvivere a un’ottantina di fans. Occhiali scuri giganteschi, giacca e cravatta, con quell’aria un po’ fané che può permettersi solo chi è elegante davvero, barba sfatta e capelli radi che ne fanno una specie di Jack Nicholson in salsa toscana che ogni tanto vira al romanesco per abitudine.
E nel destreggiarsi tra questi ragazzini e ragazzine capisci subito che questo signore, classe 1931, ha mestiere. Ogni episodio che racconta è un piccolo show, gesti e parole lo trasformano in cammeo, grazie a una trama già usata tante volte ma non usurata. Ogni autografo che firma è un affare: «Che ’te firmo un pezzo de carta? Sono un regista mica un attore. Te firmo il Dvd... Anzi, guarda qui c’è il mio libro, passami il libro, prendi il libro...». E mentre firma il libro, Terrore ad Harlem, ne racconta un pezzetto, e del film tira fuori la chicca che fa gongolare il cinefilo maniaco: «In quella scena in cui spara col mitra agli ostaggi legati al lampadario te li ricordi gli occhi di Tomás Milián? Incredibili? Incredibili sì... Era pieno di vodka e Optalidon... andava a Optalidon e vodka».
Perché questo signore che deve mettere giù la penna per i crampi a furia di firmare e che di fianco ha una pila di libri e davanti decine di film - con titoli come Milano odia: la polizia non può sparare, Roma a mano armata e Napoli violenta - è Umberto Lenzi, uno dei registi più prolifici d’Italia. Uno strano Fregoli della macchina da presa («io filmavo in cinque ore il numero di scene che un regista normale produceva in tre giorni») che ha girato più di sessanta film sceneggiandone una quarantina e che ha contribuito a creare almeno tre o quattro generi fondamentali del B-movie: il sexy giallo, il poliziottesco, il cannibal, l’horror splatter... Tanto che Quentin Tarantino lo considera uno dei suoi maggiori ispiratori.
Ma Lenzi, che fu a lungo trattato con la puzza sotto il naso da quegli intellettualini - per i quali tutto doveva essere «impegnato» e illuminato dalla luce di Solaris - e adesso è idolatrato da una sfilza di altri intellettualini - per i quali, innestata la marcia indietro, tutto deve essere «Er Monnezza» - non è solo un regista che con scarsissimi mezzi si è inventato di tutto, da Una pistola per cento bare sino a La Casa 3 (non è di Romero, testoni, Romero l’ha solo prodotta) passando per Incubo sulla città contaminata (in cui c’è l’eco del disastro di Seveso). È anche un autore di gialli inaspettatamente bravo e ha partorito una bizzarra trilogia ambientata nell’epoca d’oro del cinema fascista e di cui, a breve, uscirà il terzo volume.
Una trilogia (i titoli usciti sino a ora, per il piccolo editore Coniglio sono Delitti a Cinecittà e Terrore ad Harlem) di cui parlerebbe volentieri, ma prima bisogna tenere a bada un fan. Allora Lenzi racconta: «Senti, Cannibal Ferox e Mangiati vivi! li ho fatti perché dovevo pagare le tasse. Una cosa tremenda, avevano fatto degli studi di settore con il risultato che mi tassavano come se fossi Scola. E allora ho fatto il cannibal. All’estero è stata la mia cosa che è piaciuta di più. Negli States facevano la fila fuori dai cinema... Ci ho campato per dieci anni. Direi che mi sembrava una cagata. Ma è sempre così, le cose che amiamo di più non sono quelle che amano gli altri». Poi, spiegato anche che Tomás Milián recitava benissimo ma che aveva bisogno della controfigura anche per accendere la moto e che Hugo Stiglitz (checché ne pensi Tarantino) «non è un attore ma un pezzo di legno che cammina», finalmente si riesce a farsi raccontare della sua nuova vita di scrittore: «Io sono un regista prestato alla scrittura... Si ricorda von Clausewitz, “la guerra è la politica proseguita con altri mezzi”? Ecco, per me la scrittura è il cinema proseguito con altri mezzi. Io volevo parlare di cinema... di quell’incredibile esplosione creativa che è stata la cinematografia fascista. Tutti parlano del neorealismo, ma i registi del neorealismo si sono formati nella Cinecittà del Ventennio. Il giallo è stato un modo per raccontare quel mondo».
Una delle sue passioni è Carmine Gallone, altro genio italico della pellicola molto trascurato: «Ho scritto Terrore ad Harlem perché già la vicenda vera del film è eccezionale. In piena Guerra mondiale un regista italiano, Gallone appunto, fa un film su un pugile italiano che va a New York e vince il titolo dei massimi battendo il campione negro... È Rocky trent’anni prima... Allora, per girare ricostruiscono il Madison Square Garden a Roma! Un cosa enorme. E per fare il pubblico di colore usano centinaia di prigionieri militari americani come comparse. Io una storia così dovevo raccontarla per forza... Ho usato il giallo e mi sono divertito a mischiare personaggi veri e inventati. Il mio detective riceve una delle dritte fondamentali dell’indagine da Montanelli. Era toscano, mi è simpatico e l’ho messo nella storia, era plausibile».
Se sullo schermo Lenzi puntava all’effettaccio, all’adrenalina dello spettatore, sulla pagina la sua prosa è asciutta ma densa di particolari e chicche date dall’ambientazione retrò, come una memorabile pagina che parla di emittenti e trasmissioni radio del ’43. «Nell’ultimo volume della trilogia (Morte al Cinevillaggio, ndr) che esce tra poco il mio investigatore privato, Bruno Astolfi, si sposta a Venezia e va a indagare al Cinevillaggio. Il Cinevillaggio era la piccola Cinecittà dell’Rsi, era vicino a Venezia e Venezia era la Shanghai della Repubblica di Salò. Nessuno si sarebbe mai sognato di bombardare quella città e lì prosperava qualsiasi tipo di traffico, dal mercato nero alle spie, agli sfollati. Uno sfondo eccezionale per un giallo. Poi al Cinevillaggio c’era un mondo incredibile. Peccato che di quei film spesso non siano rimaste nemmeno le locandine... Lo dico non essendo in nessuna maniera fascista».
Ecco il Lenzi coltissimo e precisissimo che sa quando è il caso di fare un B-movie e quando invece di fare un A-Thriller. «A me piace Michael Connelly. Il suo Hieronymus Bosch è costruito benissimo, nel suo essere un tutore della legge ma antisistema». E le citazioni di Lenzi vanno ben oltre (il suo primo cortometraggio fu I ragazzi di Trastevere, una storia pasoliniana). Arriva un altro fan con maglietta molto tarantiniana. Lenzi si gira, beve un sorso d’acqua tonica e ricomincia: «Il cinico, l’infame, il violento? Il titolo originale doveva essere: Insieme per una grande rapina. Io ho detto: “così non lo guarda neanche tua suocera: copiamo Sergio Leone...”». «Perché ho girato Cicciabomba? E dàgli... Non è che mi sembrasse una bella idea, mi servivano i soldi. Ma perché non mi chiedete mai di quando ho girato Il grande attacco? Perché non mi chiedete di quando sono stato a Hollywood e ho diretto Helmut Berger o Henry Fonda?».

Poi ricomincia a firmare: «I film per la tv? Volevano roba che facesse vendere i pannolini o i detersivi, io gli ho dato La casa del sortilegio. Non hanno mai avuto il coraggio di mandarla in onda... Altro che detersivi, io nelle lavatrici ho sempre messo i pezzi di cadavere...».

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