La flessibilità da cambiare

Il governo Monti è intenzionato a incidere su uno dei cardini del mercato del lavoro italiano: l’articolo 18. La sua modifica o eliminazione, osteggiata dalla gran parte delle forze sociali, promette di spingere nuove assunzioni ma anche la flessibilità in uscita dalle aziende. Appare, pertanto, indispensabile che una misura di tale portata sia accompagnata da un nuovo sistema di tutele e da efficaci politiche per il reimpiego. Dove potrebbe essere valorizzato il ruolo delle agenzie per il lavoro, già oggi fondamentali per ridare a molti italiani una prospettiva di reddito e professionale.
I costi di tale riforma sono ancora da stimare, così come la sostenibilità rispetto alle risorse presenti nelle nostre casse pubbliche, ma la gran parte dei giuslavoristi e degli imprenditori convengono su una premessa: l’articolo 18, così come è formulato oggi, rappresenta spesso un ostacolo alla crescita e un freno all’occupazione. Perché le imprese, spaventate dalla prospettiva di accettare un contratto di lavoro a tempo indeterminato sostanzialmente indissolubile, sono indotte a cercare scorciatoie e a ricorrere sempre più a quella che potremmo definire la «cattiva flessibilità». La riprova è il motiplicarsi, a volte al limite dell’abuso, dei contratti di collaborazione e delle «partite Iva», che non solo tutelano poco o nulla il singolo lavoratore ma non permettono neppure alle imprese di puntare realmente sulla formazione dei propri addetti. L’articolo 18 è inoltre poco compreso dalle grandi multinazionali straniere dal momento che rappresenta una peculiarità italiana.

L’esito è un mercato del lavoro italiano ingessato, dove a pagare il costo maggiore sono i più giovani, spesso costretti ad accettare soluzioni di «precariato forzato» e a rinunciare alle tutele di cui gode invece chi ha un posto fisso.

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