A proposito dellantipolitica, sul Giornale di domenica Eugenio Di Rienzo ha indicato precursori illustri fra i più importanti intellettuali di inizio Novecento: Benedetto Croce, Giuseppe Prezzolini, Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile e Gaetano Salvemini, tutti «egualmente ostili al blocco di potere di Giolitti e del socialista Turati». LItalia però ha Gabriele dAnnunzio come padre più antico della contestazione al sistema di potere tradizionale, soprattutto del parlamentarismo.
Al poeta pescarese viene attribuito, esagerandone le responsabilità, il ruolo di «Giovanni Battista del fascismo», al quale fornì inconsapevolmente riti e stili, dai colloqui con la folla al motto «me ne frego», senza peraltro dichiararsi mai fascista. Viene poco considerato, invece, il dAnnunzio che a Fiume anticipò, con la «Carta del Carnaro», le più avanzate Costituzioni moderne e uno modo libertario di intendere la vita antipolitico anche quello - che avrebbe trovato i suoi epigoni più prossimi soltanto nel Sessantotto. Questo suo anticipare sia la destra estrema sia il suo opposto nasceva da una contestazione della politica parlamentare che dAnnunzio aveva intrapreso alla fine dellOttocento.
Già in una serie di articoli pubblicati sul Mattino, nel 1892, il poeta si era messo a capo della multiforme schiera degli antidemocratici, degli antisocialisti e degli antiparlamentari che movimentava e avrebbe movimentato, in epoca crispina e oltre, la vita politica e culturale della nazione. Nel 1897 dAnnunzio accettò di candidarsi per la destra, a dispetto di quanto aveva scritto sulla vita parlamentare come vera fogna della moralità nazionale. Eletto, non fece mai un intervento e fu assente anche nei momenti più agitati di quella turbolenta fine secolo. Il 24 marzo del 1900, dimprovviso, si unì alla sinistra che cercava di impedire con lostruzionismo le nuove leggi intese a limitare la libertà politica: «Riconosco che da una parte vi sono molti morti che urlano e dallaltra pochi uomini vivi: come uomo dintelletto, vado verso la vita». Passando ai banchi dellestrema sinistra, precisò di non condividere le idee dei suoi nuovi alleati, ma soltanto il «loro sforzo distruttivo». Il suo gesto stava a significare puro disprezzo per la politica dei partiti e del Parlamento: «Il sentimento che mi mosse ad entrare nelladunanza dei miei avversari non contraddice in nessun modo alla dottrina che io animo nella mia opera darte \. Tutti i miei eroi professano la più pura anarchia intellettuale e la loro ansietà non è se non la perpetua aspirazione a conquistare limpero assoluto di sé medesimi e quindi a manifestarsi in atti definitivi».
Dopo la morte del «Vate» Giosue Carducci, nel 1907, il nuovo Vate fu dAnnunzio, e la sua influenza si estese a ogni aspetto della vita pubblica: a partire da quello politico, dove il suo estetismo vitalistico sfociò come un fiume impetuoso nella corrente irrazionalistica e nazionalistica che fluiva nel Paese, animandola e ampliandola. Mentre Giovanni Giolitti era impegnato in un prudente programma riformatore, nelle redazioni dei giornali, tra molti uomini politici e nelle piazze cresceva lo scontento per una conduzione dello Stato priva di grandi idealità, incapace di valorizzare le energie e la forza creativa di un popolo abbandonato allavvilente avventura dellemigrazione, invece di intraprendere una politica di potenza. Non era più una critica alla modestia delle attività parlamentari, era sempre più spesso una negazione dei principi stessi della democrazia e dellegualitarismo.
Fra i giovani che si dichiareranno in rivolta contro dAnnunzio - da Papini a Prezzolini, da Marinetti a Soffici - i punti di contatto con il nuovo Vate sono più di quelli in opposizione.
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