
In questi giorni sono arrivate una buona e una cattiva notizia. Partiamo da quella buona: lo spread è ai minimi da 15 anni. In qualche momento della mattinata di oggi, 13 giugno, la differenza di rendimento tra Btp e Bund decennali è andata sotto i 90 punti base. Negli ultimi 15 anni, dal 2010 a oggi, era successo solo due volte e per poco tempo: nel febbraio 2021 (nascita del Governo Draghi) e nella primavera del 2018 (in occasione delle Politiche). E in realtà lo spread è ancora più basso perché al momento si confronta con un Bund decennale che scade sei mesi prima del più vicino Btp (quindi rende di meno). Inoltre, alcune autorevoli previsioni, quali Barclays e Citigroup, stimano uno spread fino a 75 punti base. Ce ne sarebbe già così per celebrare l’azione di governo, che tiene duro su una politica di Bilancio severa e mai disponibile a cedere alle pressioni di spesa da parte di varie forze in campo, amici o nemici che siano. D’altra parte, non mancano argomenti a sostegno: a pochi giorni dai referendum falliti sul lavoro, i dati Istat il numero dei disoccupati è diminuito di 217mila unità su base annua, corrispondente all'11 per cento. E la disoccupazione rimane stabile al 6,1%, con un tasso di occupazione che quasi dell’1 per cento. Gli occupati sono 24.076.000, in aumento di 141mila unità rispetto al quarto trimestre 2024. Inoltre, dopo 26 mesi di cali, è tornata a salire la produzione industriale su base annua. In aprile Un progresso annuo dello 0,3%, che su base mensile diventa + 1 per cento.
Quella cattiva è arrivata ieri, 12 giugno, e riguarda i danni causati dall’inflazione. Che ha riportato in auge un classico degli anni Ottanta: il fiscal drag. Quel fenomeno per cui, in presenza di inflazione, ai redditi che aumentano per rinnovi contrattuali, scatti o perché indicizzati, non corrisponde un aumento del potere di acquisto, che resta uguale o minore a causa dell’aumento dei prezzi. (esempio: se la pensione indicizzata aumenta da 1.000 a 1.100 euro, e il caffè da 1 a 1,10, per il pensionato non cambia nulla). Però - a parità di progressività delle tasse (cioè a scaglioni invariati) – i redditi più alti pagano più tasse. Per cui se con 1.000 euro pagavo 100 euro di tasse, con il restante compravo 900 caffè. Ma se oggi con 1.100 euro devo pagare 120 di tasse (è aumentata l’aliquota marginale), me ne restano solo 980 con i quali (a 1,10 euro) compro solo 891 caffè: quindi perdo 9 caffè, “drenati” dall’inflazione. Per il governo, naturalmente, è un affare (altro motivo per cui cala lo spread): si calcola che il fiscal drag abbia fruttato 21 miliardi in 4 anni.
Qual è il risultato netto? Chi prevale tra la buona e la cattiva notizia? Nel breve periodo la brutta di sicuro. Ma nel lungo periodo, che è quello che conta davvero, prevale la prima: lo spread è il segnale di un circolo virtuoso. Che, infatti, con l’inflazione già in vistoso calo, inizierà presto a dare i suoi frutti in termini di recupero del potere d’acquisto e, soprattutto, in minori pressioni internazionali sulle politiche economiche del governo. In altri termini, se vogliamo, sta accadendo quello che da tempo non succedeva.
E cioè un lento ma positivo alleggerimento dei costi del debito pubblico dalle spalle delle future generazioni. Certo, non dipende solo da noi, vedi guerre e dazi. Ma il governo può fare la sua parte e speriamo che non si torni indietro.