Scaccola91 chiede aiuto dalla pagina web di Yahoo! answers: «Devo lavorare a un progetto scolastico e mi servono nomi di donne che hanno fatto cose davvero grandi... tipo... Maria Teresa di Calcutta... capite??». Laurikkia1987 le risponde con un elenco di 253 personalità che comprende, oltre alla Madre di Gesù, anche Anna Bolena, Indira Gandhi, Golda Meir, Evita Perón, Margaret Thatcher, Anna Frank, Mata Hari, Marie Curie, Maria Montessori, Agatha Christie, Oriana Fallaci, Maria Callas, Marlene Dietrich, Edith Piaf, Eleonora Duse, Ingrid Bergman, Sophia Loren, Marilyn Monroe e Santa Caterina da Siena.
Quando riferisco alla contessa Maria Teresa de Filippis che il suo nome figura accanto a quello di Cleopatra, ne ottengo in cambio una risata che riempie la casa: «Al massimo potevo sentirmi vicina, per temperamento, alla Fallaci. Confessochemi sarebbe piaciuto diventare giornalista». Qualcosa di davvero grande, comunque, l’ha fatto anche questa aristocratica napoletana di 82 anni: è stata la prima donna al mondo a correre in Formula 1. Si è misurata con Manuel Fangio: «“Maria, tu vai troppo fooorte!”, mi rimproverava sempre». Ha tenuto testa ad Alberto Ascari. Ha partecipato all’ultima gara disputata da Tazio Nuvolari, la Palermo-Monte Pellegrino del 1948. Ha gareggiato con Stirling Moss, Jack Brabham, Stuart Lewis-Evans, Graham Hill e una sfilza di altri campioni.
È passato giusto mezzo secolo dal Gran Premio del Belgio in cui Maria Teresa de Filippis esordì al volante di una Maserati 250F. «Mi piazzai al decimo posto, a due giri dal vincitore Tony Brooks su Vanwall. All’arrivo ero furibonda per via della macchina. E me andai. Solo che re Baldovino in tribuna d’onore continuava a ripetere: “Ma io voglio conoscere la ragazza”. Mi recuperarono in extremis. Il sovrano mi tastò le braccia: “Sembrano di ferro”». Allora pesava 49 chili. I colleghil’avevano soprannominata Pilotino. Un vezzeggiativo al maschile, nonostante fosse corteggiata da registi e produttori che, ammaliati dalla sua sfolgorante bellezza, avrebbero voluto farne una diva dello schermo. Correva in maglietta girocollo, pantaloni di tela bianca cuciti da una sarta di Capri, mezzi guanti. «Nelle prime gare non indossavo neanche il casco. Dal motore promanava un calore terribile che mi cuocevai piedi. Quando Moss entrò nella Maserati, mi portò dalla Gran Bretagna le prime scarpe con la suola d’amianto».
In quello stesso 1958 disputò altri tre Gran Premi: Monaco, Portogallo e Italia. Oggi si accontenta diuna Yaris 1.4 turbo diesel: «Non provo più alcun piacere nella guida e mi angosciano tutte le diavolerie montate sulle auto moderne. Io vorrei trovarci solo sterzo, cambio, freni, acceleratore e volante». Anche se, da presidente onoraria del Maserati Club e da vicepresidente del Club international des anciens pilotes de Gran Prix F1, frequenta ancora i box degli autodromi di mezzo mondo ed è corteggiatissima come madrina dei raduni storici. Al suo fianco c’è sempre Theodor Huschek, suo marito da 45 anni, un simpatico austriaco che la definisce «il mio trofeo vinto a un Gran Premio». In realtà si conobbero sulle nevi di Sankt Anton am Arlberg, dove lui, da studente universitario, arrotondava come maestro di sci. Galeotto fu lo slalom. Lei era reduce da un flirt col pilota argentino Talo Tomasi, rampollo del più ricco gioielliere del Sudamerica, e da due anni di fidanzamento ufficiale con Pier Francesco Calvi di Bergolo: l’ultimogenito della principessa Jolanda di Savoia, figlia di re Vittorio Emanuele III, si consolò sposando poi Marisa Allasio, l’attrice di Poveri ma belli. Maria Teresa ha preso la passione dei motori dal padre ingegnere, Franz de Filippis, un nobiluomo napoletano nato nel 1881, proprietario dell’omonima società elettrica che da Napoli aveva portato la luce fino a Caserta, Avellino e Benevento.«Papà ha sempre tenuto tutte le carrozze e le auto acquistate nel corso della sua vita, non ne ha mai venduta una. Le custodiva al pianterreno di Palazzo Bianco, a Marigliano, dove nell’autunno del 1943 s’insediarono le truppe americane».
Quando capì che la velocità faceva per lei?
«Fin da bambina. Cominciai con i cavalli, corse
a scapicollo senza nemmeno la sella. La prima
volta che presi in mano il volante avrò avuto 6
anni. Guidavo stando seduta
sulle gambe di mio padre.
Ero l’ultima di cinque figli e
con la complicità dei tre fratelli
maschi prendevo di nascosto
l’auto di papà. Che in
realtà sapeva tutto». Sapeva e non interveniva?
«Si fidava. Avevo meno di 16
anni quando lo riportai a casa
da Roma dopo una visita
ad alcuni ministeri. Io alla
guida, mio padre seduto dietro
col duca Pironti. A Caserta
ci fermò una pattuglia della
polizia. Ovviamente non
avevo la patente. Finimmo in
caserma. Il comandante chiuse
un occhio. Del resto, ero
talmente brava che anche all’esame
di guida l’ingegnere
della Motorizzazione si accomodò sul sedile posteriore
per conversare con papà. “È inutile che
la guardi, tanto sa cavarsela molto meglio di
noi”, disse».
Prima gara?
«Nel 1948, Salerno-Cava de’ Terreni. Partecipai
per una scommessa fatta con mio fratello Antonio
e mi classificai seconda con la Topolino.
Pochi mesi dopo conquistai il secondo posto
anche alla Sorrento-Sant’Agata, corsa in salita,
sempre da sola contro i concorrenti maschi».
Il suo miglior piazzamento in Formula 1?
«Il quinto posto al Gran Premio di Siracusa del
1958. Ma non è che la mia Maserati 250F fosse
un fulmine. E poi dovevo vedermela con campioni
della stazza di Luigi Musso, che vinse su
Ferrari Dino 246 e che meno di tre mesi dopo
sarebbe morto per le ferite riportate in un incidente
a Reims, al Gran Premio di Francia, sulla
curva del Calvaire. Ho corso per 11 anni. Poi
non me la sono più sentita».
Perché?
«Il mio carissimo amico Jean Behra, un francese,
perse la vita sul circuito dell’Avus durante il
Gran Premio di Germania del 1959. Jean era
stato ingaggiato quell’anno come primo pilota
da Enzo Ferrari e avrebbe dovuto correre con
una “rossa”. Ma alla vigilia della gara litigò con
l’Ingegnere. Così mi chiese se potevo dargli la
mia Porsche: l’aveva fatta allestire a Modena
dal trio Bonacini-Neri-Colotti apposta per me,
un gesto d’amicizia, non voleva vedermi sulla
Maserati, che considerava obsoleta. Potevo
non prestargliela? Era sua. Così andò all’Avus
con quella Porsche. Uscì di pista, sfondò un parapetto
e si schiantò contro un albero. Morto
sul colpo. Aveva 38 anni. La moglie mi spedì
queste: sono le chiavi della Porsche. Io smisi di
correre».
Che pregiudizi dovette scontare per entrare in
questo mondo tipicamente maschile?
«Nessuno. Facevo quello che volevo, ero indipendente per temperamento,
per educazionee
per patrimonio. I soldi pagano la libertà».
Mai ricevuto offese, tipo «va’ a fare la calza»?
«Mai. Gli avrei cavato gli occhi. E comunque a
quei tempi era norma di buona civiltà inchinarsi
al valore, indipendentemente dal sesso».
Dormì la notte precedente al primo Gran Premio?
«In vita mia ho sempre dormito poco, cinque
ore per notte».
Ma non aveva paura di lasciarci la pelle?
«No, solo di rimanere invalida. M’è capitato almeno
cinque volte di vedere la morte in faccia.
Io non facevo come Pietro Taruffi, che prima
delle gare andava per una settimana con la moglie a controllare
tutti i punti pericolosi. Partecipai
alla Sassari-Cagliari-Sassari senza nemmeno
aver provato il percorso. Sapevo che sulle
curve pericolose gli organizzatori mettevano le
balle di paglia e mi orientavo con quelle. Senonché
in un punto critico non c’erano più, i concorrenti
che mi avevano preceduto le avevano
sfasciate. Uscii di strada e andai a sbattere. Persi
completamente l’udito dell’orecchio sinistro».
E la seconda volta che accadde?
«Alla 1000 Kmdi Buenos Aires ero quarta: volai
fuori strada per evitare un concorrente più lento.
Frattura del braccio».
E la terza?
«Al Mugello mi spiaccicai contro un albero e
rimasi in bilico su un burrone. Il tronco fu la
mia salvezza».
E la quarta?
«A Oporto, al Gran Premio del Portogallo del
1958, abbattei un palo dell’elettricità, che mi
piombò addosso tranciando in due la Maserati.
Rannicchiai non so come le gambe nel posto di
guida, come fanno le vallette quando l’illusionista
sega a metà il baule, ed evitai così di fare la
stessa fine del bolide».
E la quinta?
«Al Gran Premio di Siracusa
avevo Musso davanti a me.
Pensai bene di orientarmi
con le luci rosse degli stop
della sua Ferrari. Mi dicevo:
quando frena lui, freno anch’io.
Ma lui non frenava
mai. Lo inseguivo sul filo dei
270 chilometri orari. Non frenò
nemmeno sulla curva del
Camposanto, un nome un
programma: la presi ai 160.
Una volta giunta al traguardo,
mi accorsi che la Ferrari
mica ce li aveva, i fanalini
d’arresto».
Per quale motivo non è mai
riuscita a vincere un Gran
Premio?
«Non avevo lamacchina adatta.
La Maserati 250F era superata da almenocinque
anni. In quel periodo le auto col motore
anteriore cedevano il passo a quelle col motore
centrale. Io per la verità volevo passare alla Cooper,
ma i miei amici giornalisti mi dissuasero:
“Ma come, tradisci l’Italia?”. Scelsi la patria.
Avrei potuto far meglio con la Porsche. Invece
la diedi a Behra per andare a uccidersi».
Che cosa pensa di Lewis Hamilton, nuovo campione
delmondodi Formula 1su McLaren-Mercedes?
«Con le macchine e i circuiti di adesso, si può
farcela anche a 23 anni. I piloti di oggi sono
manichini a ssemblati pezzo per pezzo, sembrano polli
allevati in batteria. Si nota a colpo d’occhio
la discrepanza fra l’evoluzione dell’auto e
quella del cervello. La loro educazione specifica
è una sola: correre per vincere. Noi invece
correvamo per divertirci. C’erano più valori
umani, più amicizia. Ora noto solo rivalità e business.
Quandoli incontro nei box,misi stringe
il cuore. Oh, ne avessi visto uno che parla con
un altro pilota... Ai miei tempi si stava sempre
insieme, si mangiava tutti alla stessa tavola, dormivamo
nello stesso albergo. A volte andavamo
al night persino la sera prima della gara.
Fangio non era capace di ballare: fui io a insegnargli
il tango argentino».
Hamilton ha detto che non punta ai sette titoli
come Michael Schumacher, si accontenta di
tre...
«Il più intelligente nel circo della Formula 1 è
Fernando Alonso. Un uomo libero. Non si può
comprare».
Il povero Felipe Massa beffato per un solo punto. «La sfortuna non esiste», sosteneva Enzo
Ferrari. E allora che cos’è stata?
«Ma non lo so, non lo so... Potrei cavarmela incolpando
la gente dei box, dicendo che è stata
la somma degli errori della scuderia di Maranello.
Ma s’è trattato di una questione tecnica o di
una cosa voluta?».
Come voluta?
«Niente. Non mi faccia parlare. Lasciamo perdere».
Che senso ha gareggiare se poi tutto viene deciso
al fotofinish sul filo dei millesimi di secondo?
«È una cosa inutile, ridicola. Non emerge più
l’ardimento del pilota. Oggi in pista si corrono
meno pericoli, grazie a Dio, ma ai miei tempi il
rischio faceva parte della vita. Il popolo vedeva
in noi la bellezza della bravura. Adesso sono
tutti soldatini radiocomandati. Io gli impedirei
di comunicare con i box attraverso gli auricolari.
Che buffonata! Girano troppi soldi in Formula
1. Lo dico con una rabbia infinita. Ho visto
morire tanti amici solo per sport».
Ha conosciuto l’ingegner Ferrari?
«Sì, certo. Era molto paterno con me. Mi rimproverava
perché avevo la brutta abitudine, mentre correvo,
di voltare il capo per vedere gli inseguitori.
“Non devi girarti, Maria! Guarda nello
specchietto”, s’arrabbiava».
Alla Maserati lei ha avuto per compagno di scuderia
Alejandro De Tomaso. Che tipo era?
«Coraggiosissimo. Me lo ricordo al primo Gran
Premio del Venezuela nel 1955, voluto dal colonnello
Marcos Pérez Jiménez in persona, il
quale pretese che Fangio e io gareggiassimo
solo per lui in una sessione privata. Al termine
della competizione ufficiale, il dittatore venne
a congratularsi con i piloti. I poliziotti, per sicurezza,
ci puntarono i fucili alla schiena. Alejandro
affrontò a brutto muso Jiménez: “Non si fa
così con le signore!”. Rosso in viso, il caudillo
diede subito ordine ai suoi sgherri di abbassare
le armi».
Chi sono stati i più grandi piloti, secondo lei?
«Oltre a Fangio, uno solo: Ayrton Senna».
Una donna che corre diventa più attraente?
«No, ma diventa più interessante».
La sua emula Giovanna Amati racconta: «Nessuna
galanteria nei miei confronti da parte dei
piloti maschi. Gli uomini, appena sanno che mestiere
faccio, quasi tutti si bloccano dalla vita
in giù».
«Ma dove e con chi ha corso questa Amati?».
(Interviene il marito: «In Formula Abarth e in
Formula 1»). «Ma non ha mai
disputato un Gran Premio.
Mai qualificata, mai partita».
Ha preso multe per eccesso
di velocità?
«Chi? Io? No».
Che limiti metterebbe sulle
autostrade?
«Farei un’altra cosa: le vieterei
ai camion, come in Svizzera.
Non voglio criminalizzare
nessuno, ma i mezzi pesanti
non possono marciare sulle
stesse strade delle auto».
Donna al volante, pericolo
costante. Che c’è di vero?
«Ho paura solo dei distratti».
A Monza l’hanno vista ai box
con Antonio Di Pietro e Cesare
Ragazzi, quello dei rimedi
per i capelli. Li conosce?
«Chi è Di Pietro?».
È lei la Maria Teresa De Filippis che nel 2006 fu
candidata alla Camera con l’Udeur di Mastella
nella circoscrizione Lazio 1?
«Scherza? Sarà un caso di omonimia. Io fui candidata
nel 1959 per il Pli a Napoli. E presi più
voti di Pinin Farina a Torino, che era la roccaforte
dei liberali».
Ma se non fosse nata da una famiglia patrizia, che avrebbe fatto nella vita?
«Le stesse cose. Avrei solo dovutotrovare i soldi per poterle fare».
(430. Continua)
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