Il Furioso Colombo, che odia il Cavaliere e ama gli pseudonimi

Si dedicò a libri d’avanguardia ma poi scrisse tre romanzi erotici sotto il falso nome di Marc Saudade

Vittima della sua stridula nevrastenia, Furio Colombo incarna sempre meglio la “chioccia pachistana”, epiteto coniato per lui da Gianni Agnelli del quale fu pupillo. Più invecchia male e più somiglia a un pascià indostano, con l’azzurrino dei capelli vaporosi al posto del turbante e gli occhi pesti come fondi di calamaio.
A furia di odiare il Cav, Furio sembra avere anche perso il senno. Avrete seguito la vicenda di Jacopo Barigazzi, il corrispondente di Newsweek colpevole di avere definito un miracolo i primi cento giorni del governo Berlusconi. Furio, infuriato, ha negato l’esistenza del giornalista. Ha fatto una ricerca sul web e ha scoperto che un tale Jacopo Bigazzi - non Barigazzi - era un craniologo del XVI secolo. Senza nemmeno accorgersi del refuso sta da giorni proclamando sull’Unità che la firma di Newsweek è dunque uno pseudonimo. Con l’inespresso sottinteso - per quando assurdo per un settimanale liberal americano - che a scrivere l’elogio del Cav sia stato un suo tirapiedi, da Buonaiuti a Bondi o, putacaso, il sottoscritto.
Da altrettanti giorni, gli altri quotidiani gli fanno notare che a firmare l’articolo non è Bigazzi ma Barigazzi. Gli spiegano con pazienza che sono due cose diverse e che bastava cliccare giusto per sapere che Jacopo Barigazzi è un giornalista trentottenne, collaboratore da alcuni anni di Newsweek. Per semplificargli la comprensione hanno anche pubblicato la foto del giovanotto e fatto notare che il suo stesso giornale, la sullodata Unità, ha in passato ripreso articoli di Barigazzi in cui, nella circostanza, Berlusconi usciva a fettine. Niente da fare: Furio si è invaghito della sua tesi e insiste sullo pseudonimo.
Non si intravede la fine della telenovela. Si fanno solo ipotesi. Da un urlo del direttore dell’Unità che imponga al petulante settantasettenne il silenzio - ma è improbabile perché è in atto un cambio di direzione e nel giornale c’è il caos -, all’intervento di un giudice tutelare che ne accerti le condizioni. È invece esclusa una resipiscenza di Furio.
La fissazione di Colombo per gli pseudonimi è antica. Negli anni ’80, quando viveva a New York ed era responsabile delle pubbliche relazioni della Fiat Usa, Furio scrisse con lo pseudonimo di Marc Saudade tre romanzetti osé (Mondadori), con sesso, sadismo e un pizzico di pedofilia. Il più noto, “Bersagli mobili”, parlava di funzionari Onu coinvolti in traffici di bambini laotiani e cambogiani. C’erano frasi tipo: «Da queste parti, una bambina pelle e ossa è considerata un’ottima merce». Libri che potevano passare per denuncia, ma in cui prevaleva un losco erotismo. Cosa spingesse Saudade a scriverli è ignoto. Forse sublimava in letteratura una certa primordialità, a volte latente anche negli uomini più raffinati. Fatto sta che ha preferito firmarli con un nom de plume. Di qui la sua tetragona convinzione che di fronte a una sconcezza - e un elogio al Cav, secondo la sua testolina cotonata, rientra di diritto nella categoria - si ricorre a uno pseudonimo.
Da una dozzina d’anni, quello che era il più manierato ospite dei talk show, si è trasformato in una furia a causa del Cav. Furio lo odia con tutte le forze del suo corpicino manierato e con ogni vena del collo gonfia di rancore. Quando, inaspettatamente, diventò direttore dell’Unità nel marzo 2001, fece un discorso soave: «La mia Unità non alzerà la voce, abiterà territori di pace e non di conflitto, interpreterà una sinistra rasserenata senza concitazioni». In ogni parola si sentiva il letterato, nel tono la classe.
Oggi si sente solo la fasullaggine.
Furio fece, infatti, un giornale berciante come un pollaio. Ogni giorno, in ogni rigo, il Cav era dipinto come uno sgorbio repellente e un delinquente incallito. Il giornale perse di credibilità. Divenne un foglio per assatanati alla Di Pietro. L’impronta è rimasta anche col successore, Antonio Padellaro, che di Furio è ormai un clone. Tant’è che, in questi ore, il Pd, che non si riconosce più nel giornale già di Togliatti, ha dato il benservito al clone, spera di darlo al clonatore, e ha trasferito la direzione alla leggiadra Concita De Gregorio, con preghiera di accumulare meno smentite dei predecessori.
Seguendo la linea colombea di azzannare il centrodestra a prescindere, tre anni fa il quotidiano sparò a titoli cubitali che nel ’41 il padre di Ciccio Storace (allora ministro della Sanità), aveva picchiato a sangue un ebreo nella Casa del Fascio. Autore dell’articolo era la cronista, Luana Benini, moglie di Fabio Mussi, che aveva raccolto le confidenze del bastonato, signor Limentani. Ma la circostanza risultò falsa. Per la più semplice delle ragioni: nel ’41 papà Storace aveva 12 anni e la presunta vittima 23. Difficile, in quelle condizioni, immaginare la sopraffazione. Padellaro dovette prostrarsi in scuse. Una frittata, originata dai veleni seminati da Colombo con la sua furibonda direzione.
Attualmente, Furio è editorialista dell’Unità. Il suo leitmotiv, un articolo su tre, è che Berlusconi aveva la tessera P2 1816 e Fabrizio Cicchitto la 2232. L’impudenza è tra le caratteristiche della “chioccia pachistana”. Negli anni del terrorismo ha infatti accumulato diverso scheletri nel suo beauty-case. Il più evidente sulla vicenda Calabresi. Mentre il quotidiano Lotta continua lo condannava a morte, «dovrà pagarla cara. Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati: ma è una tappa fondamentale», Furio che ti fa? Firma con diverse centinaia di bei tomi, tra cui, ahimè, alcuni “grandi nomi” del giornalismo, un documento dell’Espresso in cui Calabresi è definito: «commissario torturatore e responsabile della fine di Pinelli». La sottoscrizione di Furio è del giugno ’71. L’assassinio di Calabresi del 18 maggio ’72. Dopo avere lasciato queste impronte digitali, la chioccia oggi si impanca per una tesserina massonica. Come osi, è un mistero psichiatrico.
Marco Furio, questo il suo bel nome intero, è nato a Chatillon in valle d’Aosta. Quasi un preannuncio della sua vita cotillon e salotti. Del valligiano, però, non ebbe mai nulla. La natura lo aveva dotato di una caramellosa leggiadria, tutta salamelecchi e inchini, arricchita da un amabile birignao da sofà.
Dopo la laurea in legge a Torino, la chioccia abbracciò il giornalismo tv. Per la Rai girò diversi documentari in varie latitudini. Scrisse qualche articolo sul Mondo di Mario Pannunzio ed entrò, per questa via, nella cerchia radical chic degli anni ’60. Si legò a Eugenio Scalfari e a tutti quei laici gagà che si apprestavano a fare le mosche cocchiere del Pci, dirozzando la nomenclatura del partito.
Maestro nell’infilarsi ovunque, Marco Furio si affacciò alla Olivetti. Per l’azienda del leggendario Adriano fece un viaggio negli Usa e se ne innamorò. Tornato in Rai divenne capo dei servizi culturali e aderì al Gruppo ’63, corrente letteraria innovatrice. Bersagli preferiti erano Carlo Cassola e Giorgio Bassani che scrivevano romanzi ben costruiti. Il gruppo li voleva invece nervosi e disossati. Ecco uno scampolo di prosa di Alfredo Giuliani, uno di loro: «E lo psichiatra disse: (a proposito del sogno) l’immagine del bambino con la merda è il mondo… luminoso… disgustante… fisiognomico». Con questa scuola alle spalle, Furio scrisse Le donne matte, smilzo romanzo d’avanguardia. Colombo fu incensato da Eco. Edoardo Sanguineti recensì Eco che elogiava Colombo. Giuliani scrisse di Sanguineti che parlava di Eco e del suo elogio a Colombo. Nanni Balestrini elogiò Giuliani che aveva elogiato Sanguineti per i suoi elogi a Eco e Colombo. Così, divennero famosi. Dopo di che, Furio cominciò firmare tutti i manifesti degli anni ’70, compreso quello su Calabresi. Entrò nell’empireo dell’intellighenzia, fu assunto dalla Stampa e si incistò nel mondo degli Agnelli. Fece uno scoop intervistando per ultimo nel pomeriggio P. P. Pasolini, poi assassinato nella notte. Incantato dalla sua verve, l’Avvocato lo volle corrispondente negli Usa e, ammirati i suoi volteggi tra cocktail e dinner, lo nominò pr della Fiat Usa. Di seguito, Furio ebbe alla Columbia University una cattedra sovvenzionata dalla Fiat. Sposò un’allieva, Alice Joan Oxman, di vent’anni più giovane, come lui molto chic e salottiera.
Questa vita da favola si spense nel ’90 con la nomina di Paolo Mieli alla direzione della Stampa. L’Avvocato lo aveva preferito alla sua chioccia. Ferito a morte, Furio lasciò il giornale e la Fiat. Passò alla Repubblica, ma senza la divina protezione agnellesca, nulla fu più come prima.
Cercò un altro sponsor. Si rivolse ad Andreotti, premier, ma era troppo indaffarato. Gli andò meglio con Craxi che incaricò De Michelis, ministro degli Esteri, di occuparsi della pratica Colombo. De Michelis gli affidò, in quota socialista, la direzione per tre anni dell’Istituto italiano di cultura a New York. Con questo, il fondo del barile era raschiato. Scaduto l’incarico, Craxi e compagnia non c’erano più. Mani pulite aveva travolto tutto. Furio e Alice tornarono mogi in Italia.
Qui l’esule americano corteggiò il più yankee dei connazionali, Walter Veltroni, che lo prese sotto la sua ala. Fu l’inizio della fase diessina che dura tuttora.

Furio ottenne un seggio a Montecitorio, a patto che sparasse a zero sul Cav con la lucida perfidia che tutti gli riconoscevano. Invece, preso da un odio che né Walter né il valium sono riusciti a frenare, lo ha fatto con ottusa violenza.
Ed è venuto universalmente a noia.

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