(...) ai genovesi vittime di quelle violenze.
Punto terzo: tanti di coloro che si indignano per quelle sentenze, sono gli stessi che si indignavano in direzione opposta per la Diaz. Indignazione, intendiamoci, in molti casi sacrosanta contro chi ha prima disonorato la propria divisa, tradito lo Stato e poi riversato una serie di fregnacce e depistaggi che non meritano difesa. Ma, per l'appunto, non è credibile l'indignazione a senso unico. E continuo con il mio consiglio: leggetevi il pregevolissimo Diaz del nostro Gian Marco Chiocci, in cui Vincenzo Canterini, uno dei mostri designati della macelleria messicana, racconta la sua verità. Che, addirittura, in qualche caso coincide con le scene del film di Daniele Vicari. Se fosse passata la linea di Canterini, saremmo qui molto probabilmente a raccontare un'altra storia.
Detto e ricordato tutto questo, però, vorrei accompagnarvi dialetticamente per mano, nei commenti alla sentenza sulla devastazione e saccheggio di Genova, quella che ci interessa di più perchè l'abbiamo vissuta da cittadini sulla nostra pelle. Il primo, su Repubblica, è stato firmato da Miguel Gotor e ha la sua lettura nel titolo: «G8, la condanna smisurata» e si basa sull'argomento che «gli imputati sono ormai altre persone prive di qualunque pericolosità sociale». Gotor fa una bellissima lezione sulla legge e sui principi cardine del diritto secondo Cesare Beccaria. Ma, anche a voler considerare buona la lettura di Gotor (contrastata dalle parole di Anna Canepa), crolla di fronte ai due devastatori e saccheggiatori «irreperibili». Davvero sono «altre persone prive di qualunque pericolosità sociale»?
Ma sono altri due commenti, pubblicati nella parte ligure di Repubblica, il Lavoro egregiamente diretto da Franco Monteverde, su cui voglio richiamare l'attenzione. Da un lato, c'è don Paolo Farinella che, riferendosi alle violenze delle Forze dell'ordine, ma senza affrontare per nulla il tema delle violenze di strada, spiega che «il governo avrebbe dovuto chiedere perdono a Genova al mondo e a Carlo in Nome del Popolo Italiano per conto della Giustizia. Campa Cavallo». Ovviamente, Carlo è Giuliani, «la cui morte resta impunita, anzi non pervenuta, perchè nessuno fu colpevole e nessuno le è fino ad oggi». Andava in giro con un estintore da lanciare contro i defender dei carabinieri? Un particolare, su cui non vale la pena di soffermarsi per il don. Io, che non sono don, ma che mi limito ad avere pietas, cristiana e laica, nei confronti di un ragazzo morto a vent'anni, senza dimenticare come e perchè è morto, mi limito a una preghiera. Ma, le scuse sono una cosa troppo seria per riservarle a un eroe sbagliato.
Insomma, niente di nuovo sotto il sole farinelliano.
Molto più interessante la lettura di un articolo, pubblicato lo stesso giorno, sulla stessa pagina del Lavoro, da Vittorio Coletti, il maggiore italianista italiano, un uomo chiamato dizionario, che è indubitabilmente di sinistra e di un rosso antico, che ha forse Imperia come centro del mondo, ma che non ha mandato l'onestà intellettuale all'ammasso.
Coletti, giustamente, censura le violenze degli uomini in divisa, soprattutto a Bolzaneto. E mi piace riportare ampi brani del suo intervento perchè credo sia un punto di dialogo di ri-partenza per far sì che ricomincino a parlarsi due mondi che non si sono parlati, come se si fosse al derby delle verità o al bar sport dove si confrontavano guelfi e ghibellini degli anti-polizia e degli anti-black bloc, anzichè i difensori della legalità, qualunque colore avesse.
Quindi, siamo assolutamente dalla stessa parte di Coletti, a partire dal punto di partenza: «La verità ha bisogno di coraggio per essere detta tutta» e, quindi, «ne debbono avere anche don Gallo, i genitori del povero Carlo Giuliani e i loro amici della sinistra estrema. La verità non è, io credo, del tutto comoda neppure per loro e il bellissimo film di Vicari, Diaz, lo fa vedere con onestà, mettendo a nudo, all'inizio, la gratuita violenza del Blocco Nero, dei turisti della devastazione globale. Nei giorni del G8 non ci sono state solo, da una parte, una polizia inefficiente e feroce, guidata da dirigenti e funzionari che hanno perduto la testa e l'onore, e dall'altra, una folla enorme di dimostranti miti e motivati, scesi nelle piazze per esprimere il loro rifiuti di un'idea di mondo, della cui follia oggi la crisi rende tutti consapevoli».
E qui Vittorio Coletti - dimostrandosi Intellettuale vero, se si intende con questo termine chi usa l'Intelletto, di chi ha il coraggio di posizioni che non sono sempre quelle scontate - va oltre e spiega: «C'erano purtroppo anche manifestanti che correvano le strade di Genova per una truce passione di guerra, di violenza, di distruzione, tra gioco nefasto e nichilismo politico; che sfondavano vetrine non presidiate, sfasciavano automobili di gente comune, provocavano e aggredivano il corteo dei dimostranti inermi e le imbelli forze dell'ordine».
Mica finita. Coletti ha anche il coraggio di rompere l'ultimo tabù, quello assoluto, la beatificazione di Carlo Giuliani. E, intendiamoci, non è che servisse un Intellettuale per dire che Carlo non era un santo. Però, in certi mondi, serve coraggio anche per l'ovvietà (e, a scanso di equivoci, dico che lo stesso vale per alcuni di destra che difesero l'indifendibile alla Diaz o a Bolzaneto). E, quindi, viva il coraggio di Coletti, quando individua fra i violenti proprio Giuliani: «Duole dirlo, ma c'è il rischio che tra costoro possa essere annoverato, magari più per frutto del caso che per premeditata aggregazione, anche Carlo Giuliani, visto che nessun pacifico dimostrante si sarebbe mai sognato di scagliare un estintore contro una camionetta dei carabinieri. La violenza del ragazzo non giustifica la sua uccisione, ovviamente. Ma chi chiede di di rivedere tutta la storia che ha portato anche alla tragica morte del giovane deve essere, per onestà intellettuale, pronto a riconoscere che, forse, lo sventurato ragazzo non stava dalla parte dei giusti, degli operatori di pace in quel frangente».
Fino alla chiusa, che chiede «limpidità di giudizio», almeno dopo più di dieci anni dai fatti: «le verità non sono mai a senso unico, a loro modo consolatorie» e «il bene e il male non stanno mai tutti interamente da una parte sola».
È davvero un punto d'arrivo. Anzi, di partenza.
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