NESSUNO TOCCHI IL GASLINI

Già qualche mese fa, mentre i giornali locali facevano a gara a descrivere il Gaslini come una sorta di mattatoio dei bambini, mi sentii in dovere - da papà, prima ancora che da giornalista - di spendere qualche parola per l’ospedale pediatrico di Genova. Erano giorni in cui il decesso di un neonato e di un’adolescente venivano imputati ad errori di medici e anestesisti. Le successive inchieste portarono all’esclusione totale di responsabilità in un caso e alla constatazione di una malattia congenita nell’altro.
Eppure, nell’opinione pubblica, allora passò il messaggio che al Gaslini i bambini muoiono. Qualcosa di così falso e offensivo - per tutti i medici, infermieri, personale e volontari che lavorano all’interno dell’istituto di Quarto - che mi ribollì il sangue. E, violando ogni regola del vecchio e paludato giornalismo, quello che impone di non farsi mai i fatti propri sul giornale, raccontai la mia esperienza di tri-padre suo malgrado ospite spessissimo al Gaslini. Esperienze non sempre facili, è vero. Ma anche esperienze contraddistinte spessissimo da umanità, dolcezza, tatto nei confronti dei bimbi e dei genitori; ancor oggi, quando mi incontro con il dottor Sacco o il dottor Bisio (ma potrei fare decine di nomi), visti per pochi giorni in corsia, mi sembra di avere a che fare con amici, prima ancora che con medici.
Poi, certo, anche al Gaslini ci sono cose che non vanno. Ci sono medici che non meritano lo stipendio (ricordo ancora con terrore una visita ambulatoriale dove io, che so a stento dove sono i polmoni o il cuore, mi sentivo un luminare di fronte alla dottoressa) e ci sono infermieri che hanno nei confronti dei bimbi la stessa delicatezza degli operatori Amiu nei confronti dei cassonetti. Ma sono l’eccezione, la regola è l’altra. E mi fece piacere ricevere decine di lettere e telefonate di amici e lettori che raccontavano di come il Gaslini avesse salvato la vita ai loro figli. Altro che ammazzarli.
Ora, siamo alla seconda parte. All’articolo dell’Espresso che demolisce il Gaslini. E, magari, può pure partire da circostanze vere. Ma che sarebbero uguali in qualsiasi ospedale d’Italia, soprattutto in quelli grandi, dove è ovviamente più facile trovare qualcosa che non va. É curioso - se non si vuol pensar male - che, a Genova, lo si faccia in un istituto a guida religiosa. Ed è curioso che lo si faccia in quello che è e resta un centro d’eccellenza.
Per quanto mi riguarda, non mi sposto dalle cose che scrissi mesi fa, anzi. La sanità italiana - salvo casi rari, che solitamente sono quelli che finiscono sui giornali - è una buona sanità. E i medici, di famiglia e ospedalieri, sono buoni medici. Anzi, dirò di più: al Gaslini, spesso e volentieri, si riesce ad abbinare la buona sanità alla sanità buona.
Proprio per questo, ci ha fatto piacere sentire le parole dell’Arcivescovo Bagnasco, il nostro caro Angelo, l’altro giorno alla messa nella cappella dell’ospedale: «Sono felice di essere qui al Gaslini, e se a Dio piacerà tornerò ancora e spesso per abbracciare il nostro istituto con l’abbraccio dell’affetto, della stima, della completa fiducia, dell’apprezzamento verso questo ente che serve da molti anni non solo Genova, non solo la Liguria, ma l’Italia intera e ormai anche il Mediterraneo.

Sono qui per abbracciarne l’umanità, la professionalità, lo spirito di sacrificio che da tutti gli intelligenti e gli onesti vengono riconosciuti con cuore grato».
Non c’è niente da aggiungere. Le parole di Bagnasco sono le mie parole.

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