«Quando il biglietto del treno era di cartoncino»

«Vestivamo alla marinara». Ricordando l'opera di Susanna Agnelli, riemerge prepotente tutto il disappunto (più che altro, vergogna) per l'imposizione d'indossare quella ridicola divisa, invece tanto ambita dalle madri degli Anni '30 per sfoggiare i propri pargoli nei giorni festivi, cosiddetti di precetto. Leggendo Guccini, la memoria va ai treni della mia infanzia e della prima giovinezza che si suddividevano in «Rapidi», «Direttissimi», «Diretti», «Accelerati» e «Omnibus». I passeggeri viaggiavano divisi in classi (così come nella vita): c'era la «prima», per viaggiatori danarosi (scompartimenti a sei posti con sedili e schienali imbottiti di velluto rosso-cardinale e poggiatesta ricoperti con fodere bianche immacolate e orlate di pizzo); la «seconda» per viaggiatori di condizione agiata (con divanetti pure in velluto ma in colore beige a righine nere verticali); la «terza» per i comuni mortali, (otto posti, in legno verniciato); e mi si diceva che in un tempo lontano era esistita anche la «quarta», ove il massimo confort era costituito da panche allineate in carrozze del tutto prive di divisorî.
I biglietti di viaggio erano dei rettangolini di cartone rigido di circa 3 x 6 cm. (Verde quello di 1ª, bianco quello di 2ª, rosa quello di 3ª; impossibile sbagliare classe: nessuna pietà per i furbi, i «conduttori» erano inflessibili. Se poi si fosse incappati con «posizione di viaggio» irregolare, in un «controllore» (di quelli con parecchie lasagne gallonate sul berretto)... «Signori, buongiorno. Per cortesia favoriscano il biglietto». Formula da brivido blu.
Nel 1945, appena finita la 2ª guerra mondiale, il parco carrozze era quasi totalmente distrutto, ragion per cui erano stati messi in uso (e rimasti in servizio per vari anni) i «carri bestiame», su alcuni dei quali era ancora leggibile l'indicazione «Cavalli 8 - Uomini 40», credo residuo dei trasporti militari della 1ª guerra mondiale. Su questi, ove si viaggiava ovviamente in piedi, i più smaliziati cercavano di addossarsi alle pareti per disporre di un sostegno, un appoggio. Chi stava al centro doveva piazzarsi a gambe divaricate, volgendo un fianco alla direzione di marcia, al fine di mantenere più agevolmente l'equilibrio.
Capitava che nei trasporti locali frequentati da pendolari e studenti, anche questi carri fossero gremiti e chi saliva per ultimo dovesse tenersi robustamente aggrappato alla sbarra di ferro che attraversava tutta l'apertura d'accesso, sia da un lato sia dall'altro.
Poi, col piano Marshall (in termine burocratico ERP, Europe Recovery Plan), le cose lentamente migliorarono e ripresero le costruzioni ferroviarie, sia rotabili sia fisse, ma per lunghi anni ancora viaggiarono quelle carrozze di «terza» corredate da forse dieci sportelli d'accesso da un lato e altrettanti dall'altro, per tutta la lunghezza del vagone. Si saliva direttamente sui piedi dei viaggiatori già seduti al loro posto...
C'erano anche, è vero, i vagoni blu con fregi in oro (beh... diciamo in ottone, trattati con molto «Sidol») della benemerita Compagnie International des Wagons Lits, con i loro inservienti in divisa marrone, ma brillarono soprattutto fra le due guerre. Dopo, all'avvento delle linee aeree, si avviò anche per loro un inarrestabile tramonto.


Ora c'è il «Freccia Rossa» che viaggia a 300 km/h, con posti rigidamente prenotati, aria condizionata, prese per internet, poltrone reclinabili e cristalli oscurabili. Magnifico il progresso, ma nessuno ci restituirà più il nostalgico, poetico, struggente disagio dei carri bestiame.

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