Quel «Profumo di donna» nei vicoli

Quel «Profumo di donna» nei vicoli

Il film che presento oggi ha un rapporto con Genova diverso rispetto alle altre produzioni discusse fin ora, nelle quali spesso la città stessa otteneva un ruolo di primaria importanza nello svolgimento della trama o nel messaggio da essa trasmesso. In questo caso, invece, ci viene raccontata una storia volutamente dislocata da particolari contesti; l'intento primario del regista è di incentrare la vicenda sulla narrazione dei temi più umani che la caratterizzano: la frustrante condizione di invalidità, la disperazione, il bisogno di affetto, la forza e allo stesso tempo la debolezza dell'essere umano. Tutto questo incorniciato da un ironia di fondo che solo i maestri del cinema italiano sapevano collocare così sapientemente.
L'opera in questione è «Profumo di donna» di Dino Risi, realizzata nel 1974 e tratta dal romanzo «Il buio e il miele» di Giovanni Arpino. Il protagonista della vicenda è Fausto, un capitano in pensione rimasto cieco a seguito di un incidente, magistralmente interpretato da Vittorio Gassman (difatti questa prova gli valse la Palma d'oro per la miglior interpretazione maschile al festival di Cannes). La storia si sviluppa intorno al viaggio da Torino a Napoli che Fausto ha deciso di compiere per raggiungere l'amico Vincenzo con cui subì l'incidente, anche lui ex militare e anche lui rimasto cieco. Insieme hanno intenzione di suicidarsi, per mettere fine alla sofferenza a cui sono destinati due caratteri forti e attivi come i loro relegati in un'invalidità opprimente. In realtà Fausto non troverà la forza per portare a termine il folle progetto e, dopo averne rifiutato le cure numerose volte, si lascerà amare dalla figlia di Vincenzo, Sara (Agostina Belli).
In questo viaggio, che fece tappa anche a Genova e Roma, le numerose sfaccettature del protagonista vengono delineate mettendo a fuoco il rapporto con il suo accompagnatore, un giovane attendente (Alessandro Momo). Così emerge la complessità di un personaggio che solo una grande recitazione avrebbe potuto ritrarre con tanta precisione: Fausto è un alcolista erotomane disperato, ma maschera la sua disperazione con un accentuato cinismo; Fausto sembra trarre vitalità dal suo stile di vita e dai suoi vizi, ma finisce per rivelarsi in tutta la sua fragilità («Io sono l'undici di picche, una carta che non serve a nessun gioco»); Fausto addirittura finge di leggere il giornale pur di non essere trattato come un invalido, ma in ultima analisi anch'egli si accorge di non essere autosufficiente. Questa corazza di ironia e virilità sotto cui prova a nascondersi per sopravvivere cade a pezzi nel drammatico finale in cui egli spara al suo amico Vincenzo, peraltro non uccidendolo, senza avere poi il coraggio di uccidersi come da accordo. È proprio nel sentimento più primordiale e inarrestabile che esista, la paura, che Fausto si arrende alla propria condizione esistenziale e ritorna a vivere.
Il primo passo nella costruzione di questo istrionico personaggio passa proprio dalla Superba. Inizialmente le riprese sono concentrate nella zona di via XX Settembre, ma successivamente lo spettatore viene introdotto nel centro storico genovese da una inusuale inquadratura, riempita come in un tunnel da un vicolo buio e maleodorante. Due peculiarità principali saltano agli occhi nella descrizione breve ma intensa dello sfondo costituito da questa prima tappa: in primo luogo, la classica connessione sistematica tra Genova e il suo porto già riscontrata in numerosi film esaminati in questa rubrica, non a caso i primi personaggi che si vedono «casualmente» transitare per le vie centrali sono due marinai. Secondariamente, per i fini del film e in particolare per la presentazione di alcuni tratti caratteristici del protagonista, la zona del Porto Antico viene rappresentata come facile dimora di signore che vendono il proprio amore a chi ne ha bisogno, in questo caso un invalido nel pieno del frustante processo di soffocamento della propria vitalità fisica e mentale. In ogni caso, come anticipato inizialmente, non è negli intenti di questo lungometraggio descrivere accuratamente i luoghi in cui la vicenda transita.

Concludendo, la poca importanza concessa dalla sceneggiatura alla descrizione geografica o sociale dell'ambito in cui si svolgono gli avvenimenti è ben visibile in tutte le particolari scene girate sulle terrazze all'aria aperta, magari su un panorama della città di riferimento che funge anche figurativamente da sfondo: un terrazzo è presente tanto a Genova quanto a Roma e Napoli e, oltre ad ospitare dialoghi molto rilevanti, simboleggia la volontà precisa di estromettere dalla narrazione qualsiasi dettaglio superfluo esterno alla vicenda, che in fin dei conti è costruita prevalentemente sulle emozioni della disperazione e dell'ironia amara, edulcorata da un finale che rivela sorprendentemente una vera e propria storia d'amore.

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