Se la lezione di Paolo Conte vince sulla cultura assistita

(...) ma di tutta l'Europa, e soprattutto italiano, e soprattutto genovese di un tempo.
In fondo, quello dell'attacco al Kulturstaat è lo stesso concetto che stiamo provando ad affermare con la bella inchiesta di Giulia Guerri sullo stato dei musei. Nessuno vuole chiudere i musei, anzi fosse per me vorrei un museo per ogni sala per gioco d'azzardo che apre a Genova. Ma mi rendo anche benissimo conto che un museo tenuto male è peggio di nessun museo e che un museo con più custodi che visitatori non funziona, non è giusto, ha qualcosa di perverso. E questo vale anche per tanti altri settori, a partire dalla lirica: «se ogni allestimento scenico viene utilizzato una volta sola, la conclusione è che tutte le risorse vanno ad ogni singolo spettatore, che però è sempre lo stesso».
Insomma, c'è cultura e cultura. E, come abbiamo spiegato nei mesi scorsi, è un piacere vedere che ci sono spettacoli dell'Archivolto che vincono il biglietto d'argento per il record di spettatori; che ci sono serate come quelle di Teatri Possibili Liguria che fanno il pienone a Tursi; che gli spettatori del teatro Stabile sono in aumento nonostante la crisi; e che il bilancio sociale di Palazzo Ducale parla di 540mila spettatori per le varie attività, 280mila dei quali paganti.
Magari ci sono personaggi che si inebriano per recensioni splendide o perché il loro lavoro piace alla gente che piace. Ma, persino per le mostre, il teatro e le conferenze, il mercato è un ottimo giudice. Non è detto che tutto ciò che ha grande successo di pubblico sia un capolavoro, ma è difficile che un capolavoro sia un clamoroso insuccesso di pubblico. Insomma, basta con la cultura fatta solo per compiacere gli amici o gli amici degli amici e, soprattutto, basta con la cultura senza spettatori.
In questo quadro, ho trovato splendido e capace di rincuorare anche i più scettici, vedere il Carlo Felice strapieno e con la gente assiepata fuori, in coda per tentare di aggiudicarsi gli ultimi biglietti per assistere al concerto di Paolo Conte, splendido peraltro.
Con quella faccia un po' così e quell'espressione un po' così che ha lui ogni volta che viene a Genova, l'avvocato di Asti ha conquistato la platea con un concerto trascinante, grazie soprattutto ai suoi musicisti sul palco, con una vetta assoluta raggiunta con l'esecuzione di una Diavolo rosso dagli echi balcanici, con assoli assortiti, quasi un quarto d'ora di musica da brividi. Il tocco magico su un concerto già di per se davvero bello, soprattutto nella seconda parte, concluso con tanto di standing ovation finale e, soprattutto, nemmeno una parola da parte di Conte, che non fosse la presentazione dei propri musicisti e qualche colpetto sul cuore per ringraziare. E questo è un grandissimo valore aggiunto, far vincere la musica sulla parola che, spesso, nei concerti si trasforma in comizietti vari, senza particolare valore letterario. Del resto, uno come Conte l'ha detto anche qualche giorno fa in una conversazione con Renato Tortarolo sul Secolo XIX: «La Bellezza vince su tutto». Che poi è la nostra filosofia di vita.
Chiusa parentesi sul concerto, mi concentro sul dopo-concerto. Perché, fra tante persone che se ne andavano soddisfatte dopo aver assistito a uno spettacolo che li ha gratificati, ce n'era una più soddisfatta degli altri, ed era l'organizzatore: Vincenzo Spera. Un personaggio di cui vi abbiamo parlato altre volte e che era reduce da un altro trionfo di tutt'altro genere musicale e in tutt'altro contesto: strapieno anche per Emma alla Fiumara.
Ma il punto sta proprio lì. Se Spera si sfrega le mani perché fa i pienoni, va benissimo. Perché li fa rischiando del suo e investendo del suo con, come massimo contributo pubblico, un patrocinio sulle affissioni.

Nella nostra idea di città, questo ci sta alla perfezione, soprattutto se abbinato alla qualità sopraffina andata in scena lunedì sera al Carlo Felice. E, certamente, Vincenzo non rischia di finire in un capitolo del libro tedesco sull'eccesso di cultura assistita.
Non solo perché, a occhio e croce, non sa il tedesco.
(7-continua)

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