2 IL LIBRO DI GUCCINI
I pennini, il gioco della pulce
e il rito del «caffè caffè»
Risale al periodo scolastico il ricordo dei «pennini». «Ho scoperto che ci sono i collezionisti di pennini» scrive Guccini e si domanda «li fabbricano ancora, oppure sono reperti preziosi (per il collezionista, naturalmente) rintracciabili solo da vecchi rigattieri o scoperti come tesoro fra dimenticate riserve del nonno?».
Questo è il ricordo di Guccini ed anche mio delle varie forme di pennini: «I pennini, pensati forse per i compiti più ardui e ornati di bella calligrafia, avevano forme le più strane e nomi i più immaginifici. C'era il gobbino, piccolo e maneggevole, nervoso atto a bella scrittura se saputo manovrare con decisione; c'era la torre, un qualcosa che poteva vagamente ricordare la Tour Eiffel, forse pronto per imprese barocche; c'era la manina, foggiata a mano chiusa con l'indice sfrontatamente puntato, in tempi in cui non solo non si usava, ma anche dai più si ignorava il significato di levare il medio».
Solo alle scuole superiori si passava alle penne biro, dopo aver usato la penna stilografica (ottenuta come regalo per la Prima Comunione) alle scuole medie.
E i giochi, che giochi facevamo?
«Ognuno di noi aveva una discreta dotazione di palline per colpire un'altra pallina il modo di tiro potevi tirare da terra con il normale cricco (sistema cittadino), o col complesso sistema appenninico, consistente nell'appoggiare la pallina fra pollice e indice e poi, piantato il mignolo a terra, sparare il colpo. Questo metodo barocco era bello a vedersi ma di difficile realizzazione, oppure richiedeva davvero grande abilità e lunga pratica».
E poi c'erano i giochi casalinghi. C'era lo Shangai e la Pulce. «La pulce era un gioco da bambine, di solito regalatoti da vecchie zie zitelle: dischetti di plastica colorati muniti di sbarrette oblunghe (sempre di plastica). Il gioco consisteva nel far salire un dischetto sopra un altro cliccandolo con la sbarretta oblunga. Una noia mortale. Ma piaceva, appunto alle bambine, le quali oggi, da ex bambine, si illuminano ancora d'immenso al ricordo e fanno: Ah sì, la pulce, clic e suscitano in me il malcelato maschilismo di allora».
E arriviamo alla richiesta che faccio a mia moglie, dopo aver pranzato: gradisci un caffè caffè?
Scrive Guccini: «In questi giorni, al ristorante, si può verificare uno strano rito. Al momento del caffè, quando il cameriere attende le ordinazioni, a volte ti è dato di vedere la parte femminile del tavolo che tentenna dubbiosa, partono commenti sul caffè che non fa dormire, che dà bruciori di stomaco, poi una di loro si illumina decisa e chiede: Ha dell'orzo? Sì? (Certo che ce l'hanno, oggi l'orzo viene servito anche nei peggiori bar di Caracas!). Allora un orzo, per favore! Al che il cameriere completa il rito e domanda: In tazza grande o in tazza piccola? E qui partono le diverse ordinazioni femminili. Una volta l'orzo era segno di povertà, o di autarchia. Quando una signora di un tempo riceveva una visita non offriva certo un orzo, ma un caffè. Anzi perché non ci fossero equivoci, si diceva: «Gradisce un caffè caffè?»
I conservatori non hanno l'esclusiva della nostalgia!
2 ALL'UNIVERSITÀ
Quelle lezioni di fisica a metà
tra la scienza e la filosofia
Il secondo difficile ostacolo del biennio era Fisica. Il docente, Prof. Pancini, era anche noto per essere stato candidato comunista nelle elezioni del sindaco di Genova.
Le lezioni del Prof. Pancini erano un misto di scienza e filosofia. Per esempio, uno studente era prelevato dagli spalti e fatto accomodare nell'arena su un alto sgabello da bar ma girevole. Il volontario teneva due pesi, uno per mano, e Pancini gli dava una spinta. «Estenda le braccia» - gli diceva - e la rotazione rallentava. «Tiri dentro le braccia» - e la rotazione accelerava. «Signori - diceva il professore alla fine - vi ho dimostrato il principio della conservazione della quantità di moto».
Le lezioni non mancavano di interesse, ma avevano un difetto. Non avevano quasi niente a che fare con le domande che venivano poi poste all'esame.
Gli assistenti facevano tutto meno che assistere e i pochi testi erano scritti per non essere capiti. Per cui gli esami erano un'ecatombe. In un libro scritto da Marta Boneschi e intitolato «La Grande Illusione - i Nostri Anni Sessanta» si legge a pagina 325, «...nel Febbraio '61, a Genova, l'esame scritto di fisica alla facoltà di ingegneria chiude con un bilancio di 4 promossi su 248 iscritti».
Nel libro la colpa viene attribuita alle strutture, ma dissento. La soluzione dei 244 e di tutti gli altri bocciati di quel tempo era semplice. Si trasferivano all'università di Pavia per passare l'esame di fisica, dopodiché ritornavano a Genova per continuare i corsi.
Allevato ad avere illimitato rispetto e fiducia nell'autorità, mai mi immaginavo che il Prof. Pancini mettesse me e così tanti altri in una situazione impossibile. Anch'io fui uno dei 244. Anche se poi non mi trasferii a Pavia e passai l'esame la volta successiva. Ma ancora non mi sento di provare indulgenza con chi mi ha fatto perdere tanto tempo, inutilmente.
Abitavo con mia madre nell'appartamento al sesto piano di un palazzo costruito sulla ripida collina che da via Bobbio sale fino al Righi. Si poteva accedere al palazzo tramite un corridoio che conduceva alla lunga e ripida Scalinata Montaldo.
Affacciata sullo stesso corridoio era rimasta miracolosamente intatta una casa d'antan. Avevano un gatto e, felinofilo fin dall'infanzia, mi fermavo ogni tanto a fargli qualche complimento quando era fuori. Lo avevo chiamato «Codone» per via della curiosa coda monumentale.
La sera della debacle in fisica ero andato in camera mia. Meditavo e mi chiedevo se non avessi sbagliato studi e se me la sentivo ancora di continuare. La colpa in fondo era mia per aver perso tanto tempo inutilmente. Insomma, ero molto depresso.
In quel momento sento un miagolio arrivare dal pianerottolo. Apro la porta, è Codone. Entra con la familiarità di chi in quell'appartamento ci abita, si dirige verso camera mia. Salta sul tavolo, si mette a fare le fusa ed esegue il suo repertorio di piccoli gesti di amicizia ed affettuosità. Impossibile non sorridere e dimenticare, almeno per un po', le vicissitudini accademiche.
Come quel gatto sia riuscito ad intrufolarsi nel palazzo, salire le scale fino al sesto piano, individuare l'appartamento giusto, farsi aprire e immediatamente dirigersi verso la mia camera era ed è rimasto un mistero. L'episodio non fu mai più ripetuto. Non ho altra spiegazione che il gatto voleva tirarmi su di morale e ci riuscì.
Il che ha confermato la mia convinzione che certi cosiddetti animali sono più umani di certi cosiddetti uomini.
Tutto questo è successo molti anni fa. Nella memoria l'università è rimasta com'era, quasi una camera sigillata, arredata dal passato, immobile, piena di silenzio. Il ricordo è indelebile, ma i tempi sono lontani e drammaticamente diversi da oggi. Tanto che, a ripensarci, mi sembra quasi che a vivere quel tempo non sia stato io, ma un anonimo altro che annotò i suoi ricordi e di cui ho ritrovato e redatto il manoscritto.
Di conseguenza, se a qualcuno dei lettori la storia non è dispiaciuta, spero che anche lui voglia un po' di bene a chi l'ha redatta. Se invece l'ho annoiato, lo assicuro che non l'ho fatto apposta.
Jimmie Moglia Portland, Oregon
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