Secondo il «rapporto Nimby» le opere infrastrutturali contestate in Italia nel 2012 sono state oltre trecento. Il dato è aumentato vertiginosamente se si tiene conto che la prima edizione, risalente al 2004, aveva censito 190 casi e in occasione della quinta ne erano invece stati rilevati già 283. L'effetto «Nimby» ha interessato fondamentalmente il comparto elettrico, il settore rifiuti e le infrastrutture nell'accezione più comune del termine (ad esempio, rami autostradali).
Ebbene, la presentazione dell'ottavo rapporto Nimby - realizzato da Aris per la prima volta in collaborazione con l'associazione comuni italiani (Anci) - offre l'occasione di una più ampia riflessione sul perché in pochi anni sia così radicalmente aumentata l'ostilità delle comunità locali nei confronti di progetti che, indipendentemente dai singoli casi, puntano a favorire sviluppo e progresso. Il discorso vale, in particolare, per quanto riguarda il dibattito in corso anche sulle pagine del Giornale sulla realizzazione del nuovo stadio a Genova (nella foto, il progetto presentato dalla famiglia Garrone). Al riguardo, occorre premettere che la riforma del titolo V della Costituzione, varata frettolosamente tra il 2000 e il 2001, ha prodotto danni inimmaginabili, frazionando ulteriormente il potere di decisione in un Paese, l'Italia, in cui nessuno può dire di comandare davvero.
Il tema dunque è elementare: chi fa cosa? Siamo in grado di definire e distinguere progetti di interesse locale e nazionale o ciò può avvenire soltanto in casi di incredibile, clamorosa emergenza, come quella vissuta dai campani e in particolare dai napoletani tra il 2007 e il 2008 in campo rifiuti? Anche in questo campo non dobbiamo inventarci nulla. In Francia esistono le «Amministrazioni di missione» in cui convergono tutti gli attori istituzionali partecipi di progettazione e realizzazione delle opere. C'è poi la fondamentale questione del «débat public», ovvero sottoporre a consultazione pubblica il progetto infrastrutturale in una fase preliminare, quando quindi critiche, obiezioni, rilievi, aspettative, possono essere presi ragionevolmente in considerazione. Il punto, però, è un altro. In Italia si dibatte anche troppo dell'opportunità di realizzare un'opera. Certe discussioni vanno avanti per dieci, venti, trenta, quarant'anni e non portano a nulla. O meglio, in molti casi scoraggiano gli investitori, che vengono sfiancati da discussioni e trattative infinite, in altri rallentano a dismisura la realizzazione degli interventi con l'unico risultato di far lievitare i costi di realizzazione e di vanificare l'utilità di un progetto.
La grande questione nazionale, dunque, e non soltanto nel settore delle infrastrutture, è metodologica o, se si preferisce, autenticamente democratica. Ben vengano quindi al più presto riforme nelle procedure. Ben venga un ampio e codificato dibattito con tempi e regole certe. Ma alla fine occorre decidere e subito dopo fare.
*presidente commissione
Infrastrutture e Lavori pubblici
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