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«Gheddafi è circondato» Ma lui in tv incita i suoi a distruggere gli insorti

Chi segue le brutali cronache libiche avrà già avuto modo di notare le ricorrenti, teatrali somiglianze tra la caduta del regime di Saddam Hussein e il finale di partita del colonnello Muammar Gheddafi, del suo clan e del suo sistema di potere. Se anche Gheddafi finirà sulla forca, come accadde al suo compare irakeno dopo un processo frettolosamente imbastito, non sappiamo. Ma che anche Gheddafi, come ultimo nascondiglio, abbia scelto come dicono una sordida buca polverosa -lui come Saddam avvezzo a palazzi rutilanti di luci e scintillanti di marmi e di specchi- sarebbe l’ennesima, curiosa combinazione astrale di questo diabolico, faustiano gemellaggio.
Abu Salim, un quartiere semicentrale della capitale, non lontano dall’ex roccaforte di Bab al-Aziziyah. «Sono lì, vanno e vengono da una buca, in un complesso residenziale di quel quartiere, lui e i suoi figli», sosteneva ieri mattina un tal Muhammad Gomaa, uno degli insorti coinvolti negli scontri.
«Sappiamo dove sono. Sono circondati. E oggi finiremo il lavoro», giurava il miliziano. Ma dev'essere, questo Gomaa, uno di quelli che nei giorni scorsi avevano dato per morti, alternativamente, due dei figli del rais, i quali poi risultarono vivi e vegeti, come ognun sa, visto che fino a ieri sera, di «finire il lavoro» non c’era proprio aria.
Che il colonnello conservi ancora una certa baldanza, insieme con alcune opinabili certezze sulle sorti del sanguinoso conflitto in atto è invece, contrariamente a molte aspettative, un fatto con cui fare i conti, come accade con certi orsi riluttanti a cedere la propria pelle prima che si verifichino alcuni ineluttabili eventi.
Ma è una caccia serrata, accanita, condotta metro per metro e palazzo per palazzo, sotto l'occhio dei satelliti Nato e di bande di spioni e di «legionari» ingolositi dalla taglia di due milioni di dollari, quasi un milione e settecentomila euro, pendente sulla testa del colonnello in fuga. E ogni ora, ogni momento può essere quello che scatenerà la vera battaglia finale di una guerra costata finora, dice Mustafà Abdel Jalil, capo del Consiglio Transitorio, la spaventosa cifra di ventimila morti.
Lui, il rais, ancora ieri ha trovato il modo di tuonare dagli schermi della tv al Orouba. «La Libia sia dei libici, non della Francia, dell'Italia, dei colonialisti», ha detto, evocando la jihad, la guerra santa, ed esortando anche donne e bambini ad «affrontare e stroncare gli insorti per purificare la capitale».
Che il colonnello e il suo entourage siano attrezzati per resistere «settimane, mesi, anni», è (contrariamente all'entusiastica certezza degli insorti) quel che sostiene Moussa Ibrahim, il suo portavoce. «Tutti i componenti della famiglia del rais stanno bene», ha detto in una telefonata all'Associated Press, aggiungendo che i principali collaboratori militari e politici del regime sono rimasti con Gheddafi. E c’è chi dice che il Colonnello cambierebbe rifugio ogni notte, nascondendosi tra ospedali e moschee.
Che il clan Gheddafi conservi tuttavia una certa libertà di manovra nella capitale sarebbe testimoniato dal racconto di un testimone oculare, il quale ha riferito di aver visto Seif al Islam, uno dei figli di Gheddafi dati per morti, circolare per le vie del centro su un blindato, mentre un altro ragazzo di casa Gheddafi, Al Saedi, insiste nel dire (alla CNN) che è «autorizzato» a negoziare un cessate il fuoco con gli Stati Uniti «prima che Tripoli, con i suoi 2 milioni di abitanti, diventi per sempre una nuova Somalia».
Un poco, tuttavia, già gli somiglia. Tra esecuzioni sommarie (trenta soldati lealisti, alcuni dei quali ammanettati, sono stati trovati ammazzati a bruciapelo in una caserma) regolamenti di conti e furibonde sparatorie, la guerra continua. Con le forze Nato sempre più massicciamente accanto agli insorti.


Anche se Liam Fox, ministro della Difesa britannico ammette che «è probabile che ci saranno dei giorni difficili prima che la popolazione libica venga liberata definitivamente da Gheddafi».

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