Dalla gioia all’inferno «Mio marito mi picchiava e diceva: ora comando io»

Paola ha 30 anni, ma ne dimostra meno. Ha il volto pulito della brava ragazza, indossa un giubbotto alla moda. Come tante sue coetanee. Ma basta rimanere con lei pochi secondi per cogliere nel suo sguardo un’inquietudine, anomala e profonda. La incontro per strada a Milano, dove vive. Si gira, osserva i volti dei passanti, poi cammina con passo rapido. Entriamo in un bar e chiede di sedersi in fondo, con le spalle alla parete in un punto che le permetta di osservare chi entra nel locale. Paola ha paura, molta paura da quando è sposata con un egiziano.
«L’ho conosciuto durante una vacanza in Egitto e me ne sono innamorata perdutamente. Mohammed era gentile, dolce, romantico: mi sembrava l’uomo ideale» racconta e sul suo volto si apre un sorriso. «Lo invitai in Italia e tutto filava a perfezione. Potevo vestirmi come volevo, fumare, bere vino. La nostra era una storia meravigliosa: io da cristiana rispettavo il suo essere musulmano, lui da islamico rispettava la mia identità di cattolica e occidentale».
Due anni di fidanzamento, poi decisero di sposarsi in Egitto, nel suo Paese natale, un villaggio di contadini non lontano dal Cairo. «Gli ho detto sì alle sei di sera, ma alle sette era già un altro uomo», afferma Paola. «La sua cortesia era svanita, il suo sguardo non era più dolce, ma arrogante. La sera successiva dovevamo andare alla festa di un cugino, gli dissi che avrei messo un abito da sera nero, piuttosto casto, con le maniche lunghe, senza scollatura e la gonna appena sopra il ginocchio. Mohammed mi disse di no. Io pensavo che scherzasse, ma lui imperterrito affermò che da quel momento avrei dovuto chiedere il suo consenso sull’abbigliamento. Avrei dovuto capire subito, ma ero troppo innamorata, pensai che fosse solo un po’ possessivo e lasciai correre».
Paola si agita, incrocia le mani e stringe le dita. I suoi polpastrelli si arrossano. Mi supplica di non rivelare il suo cognome, né altri dettagli che possano permettere a chi la conosce di identificarla. La rassicuro, si calma e continua a parlare. «Tornammo in Italia io lavoravo, lui rimaneva in casa. Dormiva, pregava, andava a spasso. Quando tornavo dall’ufficio, Mohammed cominciò a trattarmi male. Impartiva ordini e non accettava obiezioni. Non appena tentavo di discutere, mi strattonava per il braccio, mi spingeva, mi afferrava per la mascella stringendola e, guardandomi dritto negli occhi, affermava: “Sei mia moglie e devi fare quel che dico io!”».
Dopo appena un mese, Paola scappò dai genitori e chiese il divorzio, ma lui non ne voleva sapere. Lei scoprì che il diritto matrimoniale non era uguale a quello italiano, come lui le aveva assicurato, ma islamico e che nell’atto di nozze aveva dichiarato di averle dato una dote di ben 5 euro.
Paola si rivolse a un avvocato, Mohammed si infuriò e iniziò a tormentarla. «Aveva copiato i numeri dal mio telefonino. Chiamava tutti i miei conoscenti per sapere dov’ero, cosa facevo. Mi aspettava all’uscita dal lavoro, sotto casa. Potevo uscire solo se accompagnata da un uomo. Sul cellulare arrivavano minacce di morte a me e alla mia famiglia. Iniziai ad avere attacchi d’ansia, a non dormire più di notte. Una sera era così angosciata che mi si bloccarono i muscoli degli arti e rimasi irrigidita sul letto».
La persecuzione cessò quando Mohammed nel luglio del 2009 tornò in Egitto in vista del Ramadan. Poi un giorno la chiamò con voce dolce e suadente, come un tempo: «Se vieni qui, ti concedo il divorzio», le disse. Paola partì, accompagnata dalla sorella e da due amici. E conobbe l’inferno. Lui la portò e casa e la riempì di botte. Pugni, schiaffi, le strappò i capelli, la prese a calci, facendola anche rotolare giù dalle scale. Quasi ogni sera. «Perché mia moglie non mi ascolta», ripeteva ai familiari. Quando iniziò il Ramadan, la portò in un negozio e la obbligò a indossare la tunica e il velo.
«Ho pensato: è finita, rimarrò qui per sempre», ricorda Paola. Ma Mohammed voleva tornare in Italia e aveva bisogno di sua moglie per rinnovare il permesso di soggiorno. Le permise di partire in pieno Ramadan, ovviamente senza divorzio. Appena tornata a Milano si affidò a un avvocato che avviò le pratiche in questura per ottenere la revoca del visto e del permesso di soggiorno, ma quando Mohammed atterrò a Malpensa passò regolarmente il controllo doganale.
Gli occhi di Paola si arrossano. Inizia a singhiozzare. «Le minacce diventarono insistenti. Da allora mi sono rivolta in procura ai carabinieri, chiedendo protezione ho mostrato le prove. Tutti mi hanno detto: finché lui non le fa niente, noi non possiamo intervenire. Dunque devo morire o farmi spaccare un braccio per ottenere aiuto dalla polizia del mio Stato?».
Quando Mohammed viene a sapere delle denunce diventa ancora più pressante. Paola ha cambiato casa e lavoro, ma lui l’ha rintracciata. E per due volte lei si è trovata l’auto rigata.

«Mi fa seguire persino dai suoi amici». Paola non si trattiene più. Piange. «La mia vita è rovinata», mormora; poi, tra le lacrime, implora: «Che nessuna ragazza commetta il mio errore! La prego lo scriva. Almeno il mio dramma sarà servito a qualcosa».

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