Giorgio Manacorda

Giorgio Manacorda

Il tasso di coinvolgimento personale nel romanzo d’esordio del docente universitario e critico letterario Giorgio Manacorda, Il corridoio di legno (Voland, pagg. 168, euro 13) si misura dall’assillante presenza di dialoghi e monologhi interiori ad alto contenuto etico e morale. «I soldati non sono assassini, basta pensare di combattere una guerra, una guerra giusta, come tutte le guerre da quando esiste il mondo». «Siamo tutti feroci, e lo siamo da subito. Il resto non è che una conseguenza o una ripetizione». «Chi dei due ha sbagliato? L’idealista o lo scettico? Forse si tratta solo di due forme diverse di cinismo». Fino all’apoteosi, il dialogo tra i due fratelli la cui storia passata è la vera protagonista del romanzo: «Il potere non ha nome, né vestito, né buone maniere, ha solo maschere: rosse, nere, bianche, multicolori, non importa. Bada, non sto dicendo che il potere è il male. Anzi, dico che è necessario per la convivenza civile. - E allora, mio dolce fratello? Io ero il potere, cioè una cosa utile, buona, necessaria. Ho pagato, e pago, i miei prezzi per svolgere questa nobile funzione umanitaria. Sono un martire! - No, quelli come te sono il male».
Classe ’41, Manacorda ricostruisce la microstoria della lotta armata degli anni ’70. Quindi la scelta dell’intreccio debole per far emergere un pensiero forte, il «Non dimenticare» sommato a una sorta di «dietrologia onesta», e al finale surreale, appare a tratti fuorviante. La storia del poliziotto che fa sempre e comunque il proprio mestiere però ha cuore e cervello e dunque vuol capire come si sia potuti arrivare da un collegio di Berlino, da un gruppo di amici alla lotta armata, sta sospesa tra un film giovanile di Salvatores, Buongiorno notte, e ACAB senza decollare.

Mentre, forse per rimediare tardivamente allo scollamento tra ideologia e capacità di analisi che lo stesso Manacorda ha identificato come malattia del terrorismo, la sottotraccia del saggio sociologico prende miglior forma pagina dopo pagina.

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