E tu di quale Sciascia sei? Non è che a lui sarebbe importato più di tanto, solo che a vedere tutta questa gente al teatro Parioli, ognuno con un buon motivo per apparire o per dirsi «sciasciano» magari uno se lo chiede. Di che Sciascia sei? Quello della senatrice Finocchiaro o quello di Pannella? Quello di Racalmuto con la faccia vera di Gaetano Savatteri o quello mondano di tanti altri? L’unica cosa certa è che all’uscita tutti aspettano il taxi.
La verità è che per ragionare di giustizia c’è ancora bisogno di Sciascia. Qui si sta parlando del Giorno della civetta, quel romanzo che nel 1961 racconta a chi ancora non ci credeva quella cosa chiamata mafia. Sebastiano Somma è il capitano Bellodi, quel volto che Sciascia avrebbe disegnato pensando al giovane Dalla Chiesa. Il capomafia, don Mariano Arena, ha la faccia e la voce perfetta di Orso Maria Guerrini. Quando parla dei cinque strati dell’umanità capisci perché quella tassonomia di uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo (con rispetto parlando) e quaquaraquà non ti esce più dalla testa ogni volta che esci di casa. La regia è di Fabrizio Catalano ed è una firma di famiglia. Sciascia era il nonno.
Quando ti trovi di fronte al Giorno della Civetta capisci tutto quello che la sinistra si è perso rinnegando Sciascia. Forse da quelle parti adesso se ne stanno accorgendo. Non c’è dubbio che il capitano Bellodi sia un uomo di legge. Sta lì a sfasciarsi la testa perché è convinto che la mafia si possa battere. Ti dice anche come: segui i soldi. E come tutti sanno Falcone ha seguito il consiglio. Ma c’è qualcosa che Bellodi ha e i «professionisti dell’antimafia» non riescono ad accettare. Si può combattere la mafia senza bestemmiare il garantismo. Bellodi non è un giacobino della giustizia. È tentato, per rabbia e disperazione. Avrebbe voglia di seguire il prefetto Mori, sospendere tutte le garanzie costituzionali, estirpare il male senza tener conto di nulla, fregarsene delle libertà individuali, fare a meno di quella rottura di scatole chiamata democrazia. Si può, si può tutto. Ma Bellodi non lo fa. Il guaio quando mandi la libertà a farsi un giro è che non sai mai come farla tornare. La cosa più difficile è ricordare che dietro ogni bastardo mafioso, nelle viscere di qualsiasi delinquente, c’è qualcosa di umano. Le ragioni del garantismo di Sciascia non stanno nella ragione, nella testa, ma nell’umanità. La giustizia di Sciascia non ha bisogno di santoni e inquisitori. Eppure non si arrende. Eppure è davvero giustizia. È la giustizia degli uomini.
Fabrizio Catalano sceglie una scena neo realista. Lo fa per sottolineare che i quesiti di Sciascia non sono stati risolti. Sono gli stessi di sempre. Come può una democrazia fare i conti con l’antistato? Di cosa parliamo quando parliamo di giustizia? Come si fa a far saltare quel connubio tra politica, affari e malavita? Qui il «segui i soldi» non vale solo come strumento di indagine. La mafia negli anni ’60 passa dal potere rurale agli appalti edilizi. Conquista le città. Sciascia conosceva l’origine di questa metamorfosi. La colpa è dei soldi, i soldi pubblici, quelli che arrivavano a pioggia dallo Stato e ingrassavano la mafia e le altre mafie. Soldi come vitamine. Soldi di un welfare malato che regalava potere ai furbi e lasciava i deboli come sono sempre stati. I soldi del potere finiscono sempre nel ventre di qualche altro potere. Ieri come oggi. La sconfitta di Sciascia è che il Giorno della civetta resta vivo. La Sicilia è ancora una metafora del mondo. Si chiude il sipario e si sente la voce del maestro di Racalmuto. «Il più grande peccato della Sicilia è sempre quello di non credere nelle idee. Qui che le idee muovono il mondo non si è mai creduto.
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