Presidente Tinelli, quanto le sembrano allarmanti i dati delle udienze dei giudici italiani?
«Mi colpiscono soprattutto quelli sulle Corti d’Appello, che risultano il vero imbuto dei processi. È chiaro che in quegli uffici si fanno molte meno udienze che negli altri. Così, se anche funziona il primo grado, il blocco arriva al secondo. Ma i rinvii delle cause al 2014 sono inaccettabili. E non solo per le conseguenze per la legge Pinto. Certo, bisogna considerare che ogni udienza tratta decine di procedimenti, quali sono gli organici di lavoro e che bisogna lasciar spazio allo studio e alla redazione delle sentenze. Non si risolve il problema solo facendo udienze tutti i giorni, a meno che non si organizzi in modo diverso l’ufficio del giudice con degli assistenti che lo coadiuvino e questo è sicuramente giusto. Ma certo la situazione già così si può migliorare».
Qualcosa è cambiato dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario?
«Sì, noi la stiamo applicando ed è una grande opportunità di rinnovamento. Per aumentare l’efficienza punta soprattutto sulla responsabilità dei capi degli uffici: gli incarichi diventano temporanei, non oltre gli 8 anni, e ogni 4 c’è una valutazione per la progressione in carriera. Questo ci consente di chiedere ai capi degli uffici di darsi obiettivi precisi, di responsabilizzare anche i magistrati semi-direttivi e di stimolare un’autoanalisi per migliorarsi. Ottenere tempi ragionevoli dei processi è un obiettivo primario».
L’Europa prevede 5-6 anni, da noi si arriva a 10 e oltre. Il Csm che fa in questo senso?
«Lavora appunto per aumentare efficienza e produttività. Il 23 settembre il plenum ha costituito un gruppo di lavoro per individuare gli standard medi di definizione dei procedimenti. Sono tra i parametri che serviranno anche alla valutazione di professionalità dei magistrati. Gli standard vanno stabiliti in rapporto alle diverse funzioni, ai settori di attività, alla tipologia dell’ufficio e alle sue dimensioni, agli organici di togati e amministrativi, al carico di lavoro sui singoli. Entro 6 mesi, il gruppo di lavoro dovrà analizzare i dati del ministero della Giustizia, quelli dei referenti informatici in una serie di uffici presi a campione, quelli delle nuove Commissioni flussi e pendenze ed arrivare alle sue conclusioni».
Quali sono i parametri di efficienza che già usate per la valutazione dei dirigenti?
«Uno in particolare: il raggiungimento dell’obiettivo dei tempi di durata dei processi. In ogni ufficio, come minimo, bisogna essere in grado in un anno di smaltire il 40 per cento della somma dei processi arretrati e di quelli nuovi. Altrimenti, vuol dire che è una situazione di crisi. Inoltre, si verificano in quell’ufficio i termini degli adempimenti giudiziari, quelli del deposito delle sentenze, il rispetto dei termini per depositare le cosiddette tabelle, i piani organizzativi. Così stiamo costruendo gli indici di crisi del sistema giudiziario».
Come si spiega la situazione delle Corti d’Appello?
«Mi sembra che sia il risultato di una mentalità vecchia, per cui il lavoro del magistrato prevedeva una prima parte di duro impegno in primo grado, magari per 20 anni, e poi una seconda parte di maggiore serenità, in un ufficio con minore visibilità e minori pressioni. Dispiace dirlo, ma questi uffici oggi sono le Corti d’Appello e anche molti tribunali dei Minori e di Sorveglianza. In Cassazione ultimamente, con la presidenza Carbone, sono cambiate in parte le cose e comunque si fanno più udienze che nel secondo grado».
I magistrati si difendono dalle accuse accusando: dicono che sono in pochi, non hanno uffici, cancellieri, segretari.
«Il problema dell’organico e della distribuzione sul territorio è reale, come quello della mancanza degli uffici. Ogni governo finora non ha avuto il coraggio di affrontarlo perché teme la rivolta tagliando piccoli uffici che non possiamo permetterci e accorpandoli per non lasciare sotto organico quelli necessari. In realtà sono pochi quelli che protestano per tutelare singoli interessi, ma ogni volta i politici si bloccano.
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