Il Grand Tour degli slavi, da Mosca a Roma

Cechov, Gogol, Dostoevskij, Stravinskj: in quattro volumi la storia di un profondo legame con il nostro Paese

Il Grand Tour degli slavi, da Mosca a Roma

La porta magica d’ingresso era Venezia. Le cattedrali del Cremlino, i palazzi di Pietroburgo avevano già disegnato nella mente del futuro viaggiatore una mappa di rimandi e di agnizioni, di calchi e di conferme. Poi si scendeva a Firenze, città naturale nel combinato disposto di strade e giardini, belvederi e campagne, riflesso della idea platonica del Bello. Infine si arrivava al centro per eccellenza, la Roma eterna, la Roma antica e già moderna, cattolica e pagana, atea e al tempo stesso bigotta. Qui il viaggiatore russo aveva di che sbizzarrirsi nella sua corsa all’indietro, fantastica ma reale: la «prima Roma» repubblicana e imperiale, la «seconda Roma» bizantina, travolta dalla potenza musulmana che aveva però permesso a Mosca di ergersi a baluardo della fede, della cristianità «vera», ortodossa, e di proclamarsi a propria volta «terza Roma».
Oltre, in teoria, non si sarebbe potuti e/o dovuti andare: più sotto c’erano ancora i resti slabbrati di una civiltà che era stata grande ma che, purtroppo, non era riuscita ad acconciarsi alla modernità. Eppure, era lì che giaceva Napoli, la quarta capitale della bella Italia, l’ingresso nel «giardino terrestre» dove fiorivano i limoni, l’inebriante impasto di un’antichità perenne e poi di rabbiosi, improvvisi squarci di novità: il Medioevo plebeo e lazzarone, il Barocco sanguigno e grottesco, il Settecento illusorio e riformatore... Per chi veniva dalle steppe del Nord, l’esplosione di colori, sapori, odori da cui veniva accolto era qualcosa di struggente e insieme commovente, una sorta di afrodisiaco intellettuale. Rivoluzionari e cospiratori, anarchici e oppositori troveranno qui il luogo dove riunirsi per lenire ferite e amarezze, riprendere le forze, ipotizzare nuovi complotti...
I russi in Italia (Teti editore) quattro volumi rispettivamente dedicati a Venezia, Firenze, Roma e Napoli, è il racconto di come fra Otto e Novecento protagonisti della cultura russa, da Cechov e Gogol, da Dostoevskij a Gor’kij, a Stravinskj ebbero nei confronti del nostro Paese un amore unico e irripetibile. Costruita con una prima sezione critico-biografica e una seconda di testi dal profilo tematico, la raccolta, firmata dallo studioso russo Aleksej Kara-Murza, è arricchita, nella edizione italiana, dai saggi introduttivi ad hoc di slavisti quali Stefano Garzonio, Rita Giuliani e Vittorio Strada, nonché da nuovi capitoli dedicati ad Andreev, Brodskij e Tarkovskij. Ricostruzione storica con intento divulgativo, manuale letterario ma anche baedeker, ogni singolo tomo si avvale di un ricco apparato iconografico composto di foto e disegni provenienti da archivi italiani, russi e britannici.
Dare conto di oltre 1200 pagine e di qualcosa come più di 100 fra romanzieri, musicisti, poeti, diplomatici, agitatori è impresa vana e del resto ciascun volume fa storia a sé, nel senso che a seconda delle sensibilità dei viaggiatori una città si imprime più delle altre. Se comunque dovessimo esprimere una preferenza, puramente soggettiva, non culturale, essa andrebbe al volume Venezia russa curato da Vittorio Strada. Strada ha anche introdotto Napoli russa, dove ha messo la sua competenza di politologo al servizio di una «emigrazione» che fu soprattutto ideologica e che con l’arrivo di Maksim Gor’kij nel golfo di Napoli trasformò quest’ultimo in una tappa obbligata della intelligencija russa del Novecento. E tuttavia è nell’incontro fra la più orientale delle capitali d’Occidente e i tenaci sostenitori di una pallida anima europea all’interno di un gigantesco corpo slavo che lo studioso ha la possibilità di delineare quella corrispondenza di amorosi sensi reale eppure fantastica, consegnata alla memoria e quindi mitica che i versi di Blok riassumono in maniera esemplare: «Si attenua l’ostinato fragore della vita.

/ Si ritrae la marea delle inquietudini./ Ed un vento tra il velluto nero canta della futura mia esistenza./(...) E non forse nel secolo venturo/ a un bambino ordinerà la sorte/ di schiudere le palpebre tremanti/ accanto alla colonna del leone?».

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