Grande Diario, l’odissea del prigioniero

Numero 6865. Il numero dell’internato militare italiano Guareschi Giovannino avevamo già imparato a conoscerlo nelle pagine del Diario clandestino uscito nel 1949, con l’indimenticabile figuretta del soldatino Guareschi in copertina, la bandiera italiana con lo stemma sabaudo infilzata sul berretto. Era la prima cronaca pubblicata di quei diciotto mesi che lo scrittore, arrestato dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 e spedito prima in Polonia e poi in Germania, trascorse nei campi di Benjaminowo, Sandbostel, Wietzendorf. Erano pagine tutto sommato lievi, almeno rispetto al drammatico soggetto. Ne spiegò il perché lo stesso autore: il Diario clandestino era stato sottoposto all’approvazione di tutti gli ex compagni di prigionia e nessuno doveva sentirsi offeso o ferito dal racconto.
Ben più crude e drammatiche le annotazioni sui quattro taccuini che Guareschi aveva riportato dal lager e con i quali aveva intenzione di scrivere un diario molto più corposo. Lo raccontò lui stesso nella prefazione a Diario clandestino: «...appena a casa misi un nastro nuovo sulla macchina da scrivere e cominciai a... sviluppare i miei appunti... Fu un lavoro faticosissimo e febbrile: ma, alla fine, avevo il diario completo... lo feci ribattere a macchina in duplice copia, e poi buttai tutto nella stufa... Credo che questa sia stata la cosa migliore che io ho fatto nella mia carriera di scrittore... ».
Non era una battuta, ma la pura verità: la maggior parte del Grande Diario andò distrutta, salvo un centinaio di fogli e le agende originali. Sono stati i due figli Alberto (quello della «Lettera al Postero») e Carlotta (la «Pasionaria») a «tradire» la volontà del padre ricostruendo Il Grande Diario (Rizzoli, pagg. IX-567, euro 22). «Le testimonianze raccolte nei taccuini - scrivono i figli - sono crude, spesso angosciose: se pubblicate nel 1946 avrebbero potuto alimentare la spirale dell’odio... ». Per questo Guareschi preferì tacere.

A 60 anni dalla tragedia italiana, le sue pagine diventano testimonianza altissima dello sforzo di sopravvivere alla violenza, alla fame, all’abbrutimento, conservando intatti la dignità, l’umanità, l’umorismo. Con spasmodica attenzione a quanto accadeva nel mondo e la capacità di ascoltare ancora il canto di un’allodola oltre il filo spinato.

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