Per le grandi mostre, servono grandi prestiti

Il caso di "Dante, la visione dell'arte" a Forlì: bellissima, ma grazie ai permessi di spostamento

Una premessa è d'obbligo, e non solo perché i curatori Gianfranco Brunelli, Fernando Mazzocca, Antonio Paolucci e Eike D. Schmidt sono amici e valorosi studiosi, ma per l'impegno di dottrina e di ricerca che li ha guidati: la mostra Dante, la visione dell'arte, appena terminata ai musei di San Domenico a Forlì, è stata una impresa potente e titanica, emozionante e necessaria, il cui solo limite è che purtroppo non sia più aperta, per vantaggio e delizia di tutti. Essa ha sovrastato, anche con prepotenza di numeri e di mezzi, gli sforzi compiuti dalla vicina Ravenna, città predestinata per essere stata il luogo della morte di Dante, celebrata dopo 700 anni con la bella e timida mostra Dante e le arti al tempo dell'esilio. Entrambe presentavano, in diversa misura e quantità, capolavori fondamentali dell'arte italiana, in consistente misura provenienti dalle Gallerie degli Uffizi, parte costituente dell'impresa commemorativa forlivese.

Non in corrispondenza di anniversari, mi sono applicato anch'io all'elaborazione di grandi mostre, in particolare I tesori d'Italia all'Expo di Milano e Da Cimabue a Morandi, in Palazzo Fava a Bologna. Mostre ricche e varie, con grandi ambizioni e talvolta in spazi non adeguati alla vastità dell'impresa, ma concepite con la piena collaborazione dell'allora Ministero per i Beni culturali.

In entrambi i casi sono stato, con il crescente consenso di pubblico, letteralmente aggredito da piccole falangi di studiosi che hanno raccolto firme per rimproverarmi lo spostamento di opere d'arte, necessarie ai temi e agli obiettivi che mi erano stati richiesti: un racconto della grande stagione della pittura bolognese; una geografia della storia dell'arte per presidi, trasferendo nell'ambito artistico i principi relativi alla cultura materiale e ai prodotti agricoli di Carlo Petrini e Oscar Farinetti: la biodiversità creativa. I programmi erano chiari e la scelta delle opere ampia ed esaustiva, con la massima collaborazione delle istituzioni dei musei, di varie fondazioni e collezioni. Grande fu lo sforzo, inique le critiche. Quello che fu fastidioso e irragionevole veniva, con la falsa copertura di Italia Nostra, da uno studioso locale di pittura bolognese, Daniele Benati, il quale tentò di sollevare lo scandalo ottenendo il consenso di assoluti incompetenti d'arte, ma insegnanti nelle Università, come Carlo Ginzburg e Paolo Pupillo.

A cosa si doveva tanta attenzione, con l'inevitabile rinforzo di Tomaso Montanari, del fatuo Antonio Pinelli, dell'anziana Anna Ottani Cavina e di altri oziosi gregari? Al temporaneo trasferimento dell'Estasi di Santa Cecilia di Raffaello dalle malinconiche sale della sempre deserta e disertata Pinacoteca nazionale di Bologna agli aulici ambienti decorati da Ludovico e Annibale Carracci in Palazzo Fava, collaudata e frequentata sede espositiva. Uno spostamento di 500 metri, tra l'altro non voluto da me, bersaglio delle velenose critiche, ma concesso dal Soprintendente Luigi Ficacci al Presidente di «Genius Bononiae», Fabio Roversi Monaco. Nessuno degli indignati firmatari aveva emesso un sospiro due anni prima, quando lo stesso dipinto fu prestato al Museo del Prado.

Richiamo quell'episodio, non per ragioni polemiche, ma osservando l'assoluta e ingiustificata latitanza dei suddetti, in particolare Benati e Montanari, in occasione dell'imponente mostra dantesca di Forlì, che ha richiesto la smobilitazione di assai fragili e delicati capolavori. Montanari era stato lesto a protestare anche per l'operazione che, con l'intervento dell'Istituto Centrale del Restauro, ha consentito il trasferimento del Seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio da una sede impropria e insalubre al luogo originale, nella chiesa di Santa Lucia alla Borgata, in un fumo tossico di polemiche inutili.

Le anime belle, che pur non potevano essere ignare, hanno però taciuto, non hanno protestato per gli incredibili e clamorosi prestiti di dipinti su tavola e sculture di grandi dimensioni per la mostra Dante, la visione dell'arte a Forlì. Nel grande vano della chiesa, con vivo stupore, troviamo il polittico di Giotto e Taddeo Gaddi dalla Cappella Baroncelli nella Basilica di Santa Croce a Firenze; e, a proposito, senza che nessuno abbia battuto ciglio, la tavola con il Paradiso e l'Inferno del maestro dell'Avicenna, proveniente dalla Pinacoteca nazionale di Bologna; e, in crescendo, il Giudizio finale, capolavoro di Beato Angelico dal Museo di San Marco, il polittico dello stesso pittore dal museo Diocesano di Cortona, la impressionante e irrinunciabile Pala con San Michele Arcangelo di Domenico Beccafumi, con una delle più sulfuree e romantiche rappresentazioni del paesaggio infernale, dalla chiesa di San Nicolò al Carmine a Siena. Ce ne sarebbe abbastanza per muovere comitati di settore e consigli nazionali, oltre a rinnovate raccolte di firme, sotto lo scudiscio di un Montanari insolitamente distratto e imperturbato, preoccupato solo di non fare acquistare alla famiglia Benetton affreschi erratici di Tiepolo. Possono invece muoversi tranquillamente gli affreschi di Andrea del Castagno, con Dante e Boccaccio, provenienti dalle Gallerie delle statue e delle pitture degli Uffizi, opere tanto pertinenti a Firenze quanto non necessarie, per la loro universale notorietà, nella mostra di Forlì. E come i frati si scalzano dietro a Francesco («Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace»), così in frotte arrivano pitture e sculture di ogni tipo: il Virgilio di marmo rosso di Verona di un maestro campionese del XIII secolo dai musei civici di Mantova, il gigantesco Carlo d'Angiò di Arnolfo di Cambio (forse) dai Musei capitolini, il Santo Stefano di Giotto dal Museo Horne di Firenze, la grande tavola con la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto dal Museo di Recanati. Nessun dubbio che queste presenze abbiano reso la mostra imponente e formidabilmente esaustiva. È altrettanto certo che, al posto dei bravissimi colleghi, anch'io avrei fatto le stesse richieste.

Ma perché, in questo caso, l'indignazione dei moralisti in servizio permanente effettivo non ha dato segnali del suo implacabile rigore? Perché non sono apparsi appelli al ministro e raccolte di firme? Perché la potenza di fuoco dell'organizzazione di Forlì non ha avuto alcun contrasto? Voglio qui manifestare la mia ammirazione e la mia invidia.

E mi fanno malinconia gli invidiosi ignoranti in letargo. Una piccola, vile «conventicola».

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