Le grandi opere? Lasciamole ai privati

di Caro direttore,
gli speculatori forse sono cattivi ma non sono stupidi. Se la giornata venerdì è stata nera per l'Italia non è dunque per caso. L’«attacco» arriva a valle di una discussione politica sulla manovra economica che ha trasmesso ai mercati una forte impressione di confusione, pressapochismo e orientamento al breve termine. Siamo stati tanto occupati a distinguere fra rigore e crescita, da dimenticare che le due cose non sono antitetiche: e che anzi si tratta di obiettivi che andrebbero assieme, se solo si adottasse una prospettiva di lungo periodo.
Ma uno sguardo di lungo periodo è esattamente quello che manca nel dibattito di questi giorni. Nella manovra vi è a questo proposito un esempio eclatante. Del deficit infrastrutturale del nostro Paese, si parla da anni. I maggiori costi necessari per far circolare persone e cose in Italia rappresentano per le nostre imprese uno svantaggio competitivo. Senza infrastrutture adeguate, il mercato si restringe e tutti i fattori finiscono per essere impiegati in modi relativamente meno produttivi. Nel prendere atto di questo problema, però, non dobbiamo cadere nell'opposto pregiudizio keynesiano, secondo cui fare opere pubbliche è la panacea di tutti i mali. Non tutte le opere, infatti, sono ugualmente necessarie. Per dirla con uno slogan, le infrastrutture servono quando servono, e alcune servono più e prima di altre. Se non servono, sono uno spreco. È essenziale, allora, disporre di uno strumento per individuare le infrastrutture veramente indispensabili, sulla base delle priorità del Paese e non dell’arbitrio dei governanti.
Questo strumento è il mercato. Se un’opera è in grado di ripagarsi interamente (o quasi), significa che soddisfa un bisogno, quindi contribuisce a creare valore. Se invece richiede finanziamenti pubblici, e non riesce a raccogliere capitali sul mercato, probabilmente è inutile o sovradimensionata. Nell’Italia del 2011, comunque, la distinzione è presto fatta: poiché il bilancio pubblico non mette nulla a disposizione e, anzi, va drasticamente ridimensionato, le sole infrastrutture possibili sono quelle economicamente sostenibili. Quelle che si pagano da sole. Il che ci porta a una conclusione logica: poiché servono nuove infrastrutture, che lo Stato non è in grado di finanziare, bisogna creare un contesto capace di mobilitare risorse private, le quali si muovono «giustamente» solo se davanti agli occhi hanno una prospettiva di remunerazione, e sotto i piedi un terreno normativo fermo. Ci si aspetterebbe che il governo, che insiste retoricamente tanto sul «fare» quanto sul «rigore», ne traesse le conseguenze dovute.
Invece, il contrario: la manovra contiene un incredibile articolo che limita all’1 per cento (inizialmente era il 2 per cento) il tasso di ammortamento fiscale per i beni in concessione. Questo significa che il periodo di ammortamento viene posto ope legis pari a un secolo: un orizzonte temporale ben superiore alla durata delle concessioni, alla vita tecnica del bene, e perfino alla vita attesa delle imprese che lo gestiscono! La ratio del provvedimento è evidente e miope assieme: allargare la base imponibile per grattare il fondo del fondo del barile. Non c’è dubbio che l’effetto immediato sarà quello di generare un po’ di extra gettito fiscale, perché gli oneri non più deducibili vanno a sommarsi agli utili. Ma chi ha concepito questo provvedimento ha svolto «consapevolmente» un’analisi puramente statica: non si è minimamente interessato agli effetti dinamici. I quali, però, sono facili da comprendere: se un investimento non è recuperabile che nel lunghissimo termine, in un Paese che cambia le regole ogni pochi mesi, ci saranno meno investimenti.
Nessuno impegnerebbe delle risorse in un settore, sapendo che ci vorranno cent’anni per ricuperarle, e che «in tale arco di tempo» un qualunque ministro del Tesoro potrà rimescolare le carte più o meno a piacimento. Questa misura, insomma, finisce per riportarci al bivio iniziale, cancellando l’unica via percorribile: spazzate via le velleità dei privati, l’unica scelta è quella tra il non fare le infrastrutture, o l’affidarsi alla superiore saggezza degli uomini politici e alla disponibilità delle finanze pubbliche.


Tale disponibilità non esiste: quindi l’unico e prevedibile risultato sarà quello di rallentare l’adeguamento infrastrutturale e con esso le prospettive di crescita del Paese. I mercati vengono spesso accusati, dai loro critici, di guardare eccessivamente al breve termine: crediamo raramente si sia assistito a una simile assenza di lungimiranza. Non stupiamoci se il mondo se ne accorge.

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