«Una scema di ucraina che avevo allora li fece entrare senza chiedere nulla. Io vidi un tizio col giubbotto di pelle, i chiodi, l’aria truce e mi spaventai: questa è la chiave della cassaforte, non fateci del male. Ma signora, rispose, siamo la polizia: dobbiamo perquisire la casa. Sono rimasta agli arresti domiciliari sei mesi, centocinquantasette giorni. Lo capisce?» Adesso, adesso che l’hanno assolta, anzi prosciolta senza nemmeno dover fronteggiare un processo, Serena Grandi ride: «Cercavano cocaina, parlavano di mignotte russe, di festini a luci rosse. Al massimo potevano trovare i tortellini e dei gran bolliti di cui vado pazza». La risata si allunga, diventa quasi isterica, si trasforma in pianto: «Mio figlio Edoardo aveva 13 anni, hanno perquisito pure lui. Mi hanno distrutto, mi hanno rovinato la vita e annientato la carriera». Il pianto diventa irrefrenabile.
Signora Grandi, l’anno scorso lei ha fatto un film importante: «Il papà di Giovanna».
«Ho scoperto di essere una grande attrice. Forse sono rinata. Silvio Orlando con quel film ha vinto a Venezia la coppa Volpi, ma è come se l’avessi vinta anch’io. Che strano».
Che cosa?
«Mentre languivo in attesa di un futuro che non arrivava, ho portato il mio romanzo L’amante del federale a Pupi Avati. L’amante del federale è una storia attualissima, specialmente adesso che si torna a parlare delle case chiuse. Dovrebbero farne un film».
Invece?
«Invece, Avati si ispira solo alle sceneggiature scritte da lui stesso. Però al momento del congedo, mi ha sorpreso: spero di averla presto nel mio staff. E così è stato. Ma, ormai, sono rovinata».
Ma no, perché?
«Sono stata sei mesi ai domiciliari senza nemmeno sapere il motivo. Quel giorno del 2003 io, ignara, chiamai il mio civilista, io non sono una delinquente, e fu lui a spiegarmi che ci voleva un penalista. Poi sono rimasta sei anni in attesa di essere scagionata».
L’hanno interrogata?
«Una volta sola. Su mia richiesta. Ma mi hanno messo alla gogna e io ora me li vedo i produttori: chissà, la Grandi se l’è cavata, ma magari c’entrava; questa la mattina non si alza dal letto per girare una scena. Invece, io ho una voglia matta di lavorare. E sto guarendo».
Da cosa?
«Questa storia mi ha buttato addosso una depressione terribile. Ho passato mesi a letto. Ancora adesso non sto bene. Questa è stata una carognata, come sparare sulla Croce rossa. Forse qualcuno mi ha collegato allo scandalo che coinvolse il mio ex marito, Beppe Ercole. Sto parlando della droga nella toilette del Number One, la discoteca di Roma. Ma io ero ancora in fasce».
Ercole ha vent’anni più di lei.
«Ercole se n’è andato per la sua strada, ha sposato Corinne Clery. Edoardo, che adesso ha 19 anni, non ha avuto un padre. Io, per crescerlo, ho rinunciato a tutto, alla carriera, ma non c’era in verità nessun copione speciale».
Lei è diventata famosa come icona sexy di Tinto Brass: Miranda, 1985. Le è rimasta addosso quell’immagine?
«No. Nell’89 sono diventata una madre in Donna d’onore e ho svoltato. Poi è nato mio figlio, sono rimasta sola, nel 2003 quest’altra tegola. Sei anni di merda». Serena Grandi piange di nuovo: «Mi scusi, ieri è morto il mio compagno».
Il suo compagno?
«Sì, un brutto male se l’è portato via in due mesi. Ma non mi faccia dire di più. Era un professionista, viveva ancora con la moglie anche se ci frequentavamo da dieci anni e lei sapeva».
Si asciuga le lacrime: «Voglio girare un film. Comunque adesso mi sono fatta più furba, non sono più l’ingenua di sei anni fa. È che talvolta mi prende la rabbia e la rabbia acceca: finisce che te la prendi con le persone sbagliate».
Un fischio acutissimo interrompe la conversazione: «Luisita». Luisita, un pappagallo di 1 anno, risponde pronta: «Amore». Poi, incredibilmente, canticchia qualcosa che assomiglia alla melodia del Flauto magico. Poi fischia come una locomotiva inseguita dagli indiani e ripete: «Amore, Edo», fino ad impedire qualsiasi discorso. «È gelosa, ma mi vuole bene. Come la gente dei Parioli, il quartiere di Roma dove vivo.
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