
«Sono bloccato a Parigi con mia figlia, mentre mia moglie e mio figlio sono a Tel Aviv. Siamo divisi». Eran Riklis parla in videochiamata: «Ero in Svizzera a un festival di cinema, dove proiettavano il mio film Leggere Lolita a Teheran. E poi all'improvviso è scoppiata la guerra, e il mio volo è stato cancellato. Così ho provato a partire da Parigi. Ma ci sono centocinquantamila israeliani che devono tornare a casa, la lista sui voli è lunga...». Il regista, nato a Gerusalemme 70 anni fa, nei suoi film supera confini talvolta ardui da valicare nella realtà: Il giardino di limoni (protagonista una donna palestinese), La sposa siriana e, appunto, Leggere Lolita a Teheran, tratto dal bestseller di Azar Nafisi, in Italia edito da Adelphi.
Eran Riklis, come vive questa situazione?
«È folle e tragica. È un buon esempio di come i politici riescano a distruggere tutto. Quando ho girato Leggere Lolita a Teheran il cast era tutto iraniano e fra noi non abbiamo avuto alcun problema, anzi: israeliani e iraniani sono molto vicini per cultura e comportamenti sociali».
Come considera questo conflitto?
«Mi rimanda al 1991 e alla prima guerra del Golfo: ero seduto in un rifugio, con mio figlio di cinque anni e avevamo le maschere antigas, per paura delle armi chimiche. Ecco, nel 2025 siamo nella stessa situazione: dobbiamo correre nei rifugi e temere per la nostra vita, da entrambe le parti».
Nei suoi film narra proprio i mondi in conflitto.
«Non sono ingenuo. Cerco di capire la complessità della situazione. Da israeliano, il 7 ottobre è stato un enorme trauma, da ogni punto di vista: sconvolgente e devastante, come se fosse spuntato dal nulla. E dopo, il fatto di essere intervenuti per distruggere Hamas e, di conseguenza, che molti innocenti siano stati colpiti, ha reso tutto questo un ciclo senza fine. I miei film riguardano quella che può essere una via d'uscita: intelligenza, sensibilità, rispetto, onore».
E se la guerra abbattesse il regime?
«Ogni persona di buon senso non può che essere felice di liberarsi di una dittatura, e quella iraniana è fra le peggiori. Ma bisogna stare attenti a interferire in altri Paesi: se sono gli iraniani a cambiare il regime, fantastico, ma è difficile agire nel modo giusto, dall'esterno».
Che rapporto ha con la politica?
«A volte rimpiango di non essere un politico. Solo i politici fanno la differenza in questo mondo, nel bene e nel male. Nel 1973 ero un giovane soldato durante la guerra di Yom Kippur: molti miei amici sono stati uccisi, ho trascorso sette mesi nel Sinai. Eppure, dopo sei anni, Israele ha fatto la pace con l'Egitto. Ci mancano leader in grado di fare questo».
Che cosa?
«Dire basta e trovare una soluzione. C'è una mancanza di visione, ovunque. Mio padre era uno scienziato nucleare, nato nel '27 in Israele: apparteneva alla generazione che ha creato lo Stato e aveva una visione realistica del conflitto e della situazione con il mondo arabo, ma aveva anche una apertura mentale, credeva nel rispetto dell'essere umano».
Ha paura per Israele?
«La situazione è delicata, ma credo in noi israeliani: se dovremo difendere la nostra democrazia, penso che saremo forti abbastanza».
È sorprendente perché io pensavo a una paura più materiale, quella di chi sta sotto le bombe.
«Noi israeliani siamo resistenti: la nostra è una lunga storia di sopravvivenza a conflitti e guerre. Siamo gente dura, però abbiamo anche paura. È incredibile vivere in una città come Tel Aviv e svegliarsi coi missili sopra la testa. Golshifteh Farahani, l'attrice che interpreta Azar Nafisi, mi disse che quel ruolo avrebbe potuto causare problemi alla sua famiglia: una iraniana che gira un film con un regista israeliano... Però aggiunse: non possiamo avere paura, abbiamo qualcosa da dire».
E come ha preso Azar Nafisi l'idea di un film dal suo libro?
«Le chiesi: ha senso per te che un israeliano giri una storia iraniana? E lei: grandioso. E poi mi ha detto: grazie per aver compreso il mio libro».