Harding: porto alla Scala il Mozart più vero

Alla vigilia dell’inaugurazione della stagione il direttore anticipa colori e emozioni del suo «Idomeneo»

Piera Anna Franini

da Milano

Una carriera costruita a suon di «il più giovane». «Il più giovane» direttore a salire sul podio dei Berliner, nel 1996, a vent’anni. Il più giovane direttore presente ai Bbc Promenade Concerts. Consacrazione nel 1998 al Festival di Aix-en-Provence per un Don Giovanni condiviso con Claudio Abbado e per la regia di Brook. Ora nel database di Daniel Harding, artista di Manchester, cresciuto nella bottega di Simon Rattle, lavoro di lima con Abbado, finisce un altro dato sensazionale: a ventinove anni, Harding firma l’apertura della stagione del teatro alla Scala dirigendo Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart. Un Idomeneo che si incunea fra i mille impegni presi da Harding prima delle bufere scaligere e quindi della proposta del sovrintendente Lissner. La scaletta delle prove, che si infilano tra concerti a Colonia, Chicago, Mosca... , non ha fatto comunque una grinza, anzi «tutto si è rivelato più semplice di quello che mi aspettavo. Dirigere mi dà energia, dopo tre ore di lavoro mi sento più fresco di prima. Non mi sembrava corretto cancellare le tournée con la Mahler Chamber Orchestra», spiega riducendo tutto alle giuste proporzioni. Harding ama sdrammatizzare. Anche ricorrendo all’arma dell’ironia: con che animo ho messo piede alla Scala conoscendo i fatti recenti? «Quel che sapevo, l’ho appreso leggendo i giornali... ora ho consolidato l’idea che non sempre bisogna credere a quello che i giornali scrivono».
Perché la scelta è caduta su Idomeneo e non su Così fan tutte già in cartellone?
«Mi sembrava irrispettoso proporre un titolo progettato da un altro direttore».
Un giudizio sull’acustica del teatro alla Scala?
«Credo che in una situazione da concerto possano sorgere problemi. Per l’opera, invece, le condizioni sono buone, il suono corre con naturalezza: non ho mai dovuto correggere dinamiche».
Quali edizioni discografiche di Idomeneo predilige?
«Quella di Gardiner, trovo eccellente l’Idomeneo di Placido Domingo. In generale, mi piace il Mozart di Bruno Walter».
Due termini che possano tradurre l’essenza di Idomeneo?
«Il primo è speach, quindi senso dell’articolazione e del fraseggio, il che interessa sia il canto sia l’orchestra, e quindi la scelta dei tempi. Il secondo è la naturale rappresentazione del testo. In Idomeneo vi sono forti contrasti, c’è tanta violenza, è una miniera di colori e emozioni. E la cosa eccezionale è come Mozart, più di tutti, riesca a renderli veri».
Condivide la lettura in chiave contemporanea del regista Luc Bondy?
«Non mi interessa in quale epoca un’opera venga trasposta, ciò che conta è come si relazionano i personaggi, come si sviluppano dall’inizio alla fine. Non mi piace neanche vedere rappresentazioni dove coro e cantanti stanno lì impalati. Grazie a Lissner ho potuto lavorare con Bondy, Brook... registi che operano in maniera diversa ma condividono il lavoro sul cantante inteso come personaggio».
I giovani disertano le sale da concerto, un antidoto?
«Il problema è che ciò riguarda tutte le fasce d’età. In ogni caso, non dobbiamo pensare che se una cosa non interessa alla maggioranza non ha il diritto di esistere.

Poche cose interessano tutti, e queste sono il cibo e il sesso. Non dobbiamo sforzarci di rendere la classica popolare: no al crossover. Ogni volta che facciamo musica dobbiamo essere convinti che fra cento spettatori possiamo influire sul maggior numero possibile».

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