RomaSembra quasi che il «partito dellamore» abbia fatto breccia anche nel Pd. Gli (ex?) oppositori di Pier Luigi Bersani si sperticano in lodi per il segretario; quelli che fino a ieri minacciavano scissioni giurano «non ci lasceremo mai»; i vincitori del congresso ricordano quanto erano bravi i vinti ai loro tempi.
Enrico Letta, dal podio, vede «tanti volti sorridenti» in platea. Si vota tutti insieme su quasi tutti i punti programmatici allesame dellassemblea nazionale del Pd, si sorvola sul nodo della premiership (Bersani si tiene stretto allo statuto voluto da Veltroni che dice che il candidato premier è il segretario, dunque al momento lui; i veltroniani pensano che sia meglio sceglierlo con le primarie, aggirando il loro statuto e soprattutto Bersani). E la due giorni si chiude in un afflato affettuoso tale che persino Massimo DAlema diventa buono come Sandro Bondi: «Mi sono trovato daccordo con quasi tutti gli interventi», dice, e incita a «lavorare insieme in spirito di amicizia» e a «puntare» sui giovani per lasciare - con calma - il passo a «una nuova generazione».
Escludendo unassunzione collettiva di ecstasy, resta il fatto più prosaico che, dietro le quinte, si è siglato un compromesso per ricompattare la baracca, puntellando da un lato la leadership di Bersani e dallaltra allargando alla minoranza interna i posti a tavola del Pd. Minoranza dentro la quale ognuno (Franceschini, Fioroni, Fassino) gioca per sé e per ritagliarsi un proprio ruolo; e tutti giocano contro lingombrante Walter Veltroni: non a caso grande assente, ieri, dalla generale fumata di calumet.
Già: venerdì Veltroni aveva annunciato di voler intervenire sul più controverso tra i punti programmatici in discussione: quello del lavoro. Lex segretario si è schierato apertamente a favore del contratto unico di inserimento, mentre la linea Bersani (benedetta dalla Cgil e passata con lastensione dellarea che fa capo a Ignazio Marino) è contraria. Ma alla fine Veltroni ha scelto di non mettersi a fare il controcanto isolato al segretario, e ha preferito defilarsi andando a commemorare un defunto sindaco di Monterotondo. A perorare la causa del contratto unico è rimasto Pietro Ichino, che accusa il Pd di favorire l«apartheid» dei precari e di «parlare solo a metà del lavoro dipendente e del mondo sindacale», leggi Cgil.
Parole dure, ma non quanto quelle usate dallex candidato governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Il cui feroce jaccuse ha rotto il clima da «vie en rose». Il risultato delle regionali è stato «rimosso», dice De Luca, ma «ha messo in discussione la funzione nazionale di un partito che ha perso a Sud a Nord e nel Lazio». Il gruppo dirigente Pd è «stanco, consumato, senza capacità di comunicare». Il partito ha «perso anche la rendita di immagine del buon governo: la nostra immagine ora è quella della sanità in Puglia, dei fallimenti di Bassolino e Marrazzo, della crisi di Bologna». Insomma, «agli occhi della gente siamo come gli altri, peggio degli altri». Ma «restiamo malati di una presunzione di superiorità che non ha più alcun fondamento».
Ma De Luca, si sa, è un guastafeste.
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