Politica

I megafoni stonati delle lobby

Il destino di un Paese è messo sempre nelle mani della sua classe dirigente. Una banale ovvietà, può giustamente dire qualcuno, ma in momenti come questi anche le ovvietà possono essere delle novità. Ma che cosa è la classe dirigente di un Paese industriale e moderno? È l’insieme dei vertici politici di maggioranza e di opposizione, dei maggiori imprenditori, di quelli cioè che hanno dalla loro parte vasti fatturati e notevole potere, i vertici delle grandi organizzazioni sindacali, quelli dei grandi quotidiani del Paese e quegli intellettuali nelle università, e più in generale nella società civile, che sono riconosciuti come opinion leaders. In aggiunta vi sono i responsabili dei poteri cosiddetti indipendenti, dalle varie autorità di controllo alla magistratura, ed in particolare i vertici delle Procure che oggi più che mai sono i responsabili di tutto ciò che fanno i propri uffici. A conti fatti non più di due o tremila persone sulle cui spalle cade, in maniera naturalmente differente, l’onere dello sviluppo economico e civile del Paese.
La classe dirigente, si usa dire, fa sistema in una grande democrazia e fare sistema significa condividere non solo le regole che il Parlamento sovrano o la Comunità europea ci hanno dato, ma anche alcuni obiettivi di fondo che rappresentano l’interesse nazionale. Tanto per fare alcuni esempi, la lotta al terrorismo è un interesse nazionale, così come sono un interesse nazionale le regole del mercato e la netta separazione dei poteri dell’esecutivo, delle assemblee legislative e dell’ordine giudiziario, vecchio cardine questo, da Tocqueville in poi, di ogni sana democrazia. Tre soli esempi tra i tanti che si possono fare, naturalmente con l’aggiunta che l’interesse nazionale non impone alla classe dirigente una uniformità di convinzioni politiche o economiche. Esso impone solo che, pur nella diversità, dinnanzi a un interesse nazionale, la classe dirigente sappia fare quel che passa appunto sotto il nome di sistema. L’Italia di oggi ha questa classe dirigente capace di farsi carico dell’interesse nazionale? Ne dubitiamo alla luce di quanto accade in questi giorni sulle vicende dell’Antonveneta e della Bnl, sulle intercettazioni delle Procure di Milano e di Roma e sull’aggressione ai vertici di Bankitalia. Ognuno, lo abbiamo detto, può avere opinioni diverse, ma diventa difficile accettare ad esempio che un grande opinionista come Sergio Romano scriva sul Corriere della Sera della telefonata tra Giovanni Consorte e il presidente del Tribunale di Milano Castellano, sollevando giustamente dubbi sul terreno della eticità, e taccia contemporaneamente sulle intercettazioni della Procura di Milano passate ai giornali. O taccia sul sequestro giudiziario delle azioni di Fiorani e compagni il giorno dopo il fallimento dell’Opa dell’Abn Amro sull’Antonveneta e che, proprio grazie a quel sequestro, riceve in grazioso regalo la gestione in beata solitudine della banca padovana. I suoi silenzi, infatti, rischiano di essere più eloquenti di ciò che dice perché, guarda caso, i numerosi editori del Corriere della Sera, stretti in un patto di sindacato, sono tutti a favore degli olandesi e degli spagnoli del Bbva per ragioni che quanto prima descriveremo nel dettaglio. Lo stesso discorso vale per Eugenio Scalfari, vecchio fustigatore della razza padrona (parliamo dell’antichità) e che da molti lustri tenta di sostituirsi ad essa. Scalfari ci ammonisce, dalle colonne di un altro grande quotidiano, che Fazio deve andar via perché Padoa Schioppa lo possa sostituire (non dice il nome, ma lo fa capire), che la Bnl deve essere data ad Abete e Della Valle e quindi agli spagnoli e infine che i Democratici di sinistra devono prendere le distanze dall’Unipol.
Per non parlare, in questo quadro, delle iniziative delle Procure della Repubblica e di alcuni parlamentari di maggioranza e di opposizione. Insomma, una quadriglia scomposta di protagonisti tutti alla ricerca del tornaconto della propria lobby amica, mentre tutti avrebbero le energie intellettuali per ricomporre una governance seria di un Paese industrializzato come l’Italia, purtroppo avviato sulla strada del declino. La confidenza tra il governatore e un banchiere, la telefonata amica tra un magistrato e il capo di una società finanziaria possono essere episodi tutti da censurare ma certo non tali da richiedere le dimissioni di Fazio o l’annullamento dell’Opa dell’Unipol e men che meno tali da consentire a qualche Procura della Repubblica di decidere a chi debba essere dato il controllo di questa o di quella banca. A chi sale sul pulpito per perorare la causa dei propri amici in maniera scoperta o in forma più garbata è giusto ricordare che il lobbismo europeo ha messo l’Italia e il suo sistema finanziario nel mirino, come dimostrano le telefonate altrettanto amiche del presidente dell’Abn Amro Groenink al Commissario europeo per il Mercato Charlie McCreevy. È tempo che la classe dirigente italiana faccia uno sforzo per essere all’altezza del tempo che viviamo perché tutto ciò che si spende nell’interesse del Paese ritorna in termini di vantaggio per tutti e per ciascuno.

Se lasceremo invece che il Paese si sbricioli qualcuno potrà anche avere un vantaggio oggi ma perirà domani anche lui sotto le macerie che avrà concorso a procurare.

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