di Vittorio Dan Segre
Raymond Ibrahim, direttore associato del Middle East Forum, un "pensatoio" politico di Filadelfia, in un articolo del 20 aprile scorso intitolato «Il silenzioso sterminio dei "cani cristiani" in Iraq» ricorda come metà della popolazione cristiana di quel Paese ha dovuto emigrare o cambiare residenza dopo che 700 cristiani incluso un vescovo e vari sacerdoti sono stati uccisi e 61 chiese bombardate. La situazione non è migliore in Pakistan ed è diventata paradossale dopo lo scoppio delle rivolte arabe in Tunisia, Libia, Siria ed Egitto.
I cristiani si pongono la domanda: sono i tiranni come Saddam o Mubarak a creare società brutali o sono società brutali che creano il bisogno di tirannie per mantenere l'ordine interno? La domanda é di vitale importanza per l'Egitto, stretto fra il desiderio di riconquistare un ruolo di guida regionale e una rivoluzione in cui la "questione cristiana" sta trasformandosi in nuovo fattore politico. La comunità copta d'Egitto è quella cristiana più numerosa nella regione, con potente diaspora in America. Fra la chiesa copta e le chiese ortodosse ci sono da sempre rapporti di fede, ma la posizione di Mosca verso la religione non è più quella dell'epoca comunista. La dura reazione dei patriarchi ortodossi russi dimostra che la comunità copta d'Egitto ha trovato un inaspettato alleato nel governo di Putin. L'uccisione di undici suoi membri e la distruzione di una chiesa alla periferia del Cairo ha un significato che va al di là delle reazioni copte ai passati scontri interconfessionali. Se la causa immediata - falsa o vera che sia - è l'accusa di imposta o rifiutata conversione forzata, le ricadute di questo massacro all'interno e all'estero sono negative per un Paese arabo che vuole riconquistare un posto di guida. Il mancato intervento della polizia a difesa dei copti nella capitale stessa e la maniera con cui ha reagito alla loro protesta davanti alla sede della televisione dimostra la perdita di sicurezza e lealtà dei suoi capi: temono di essere accusati di eccessiva violenza e allo stesso tempo lo stato di crescente insicurezza nel Paese (aumento dei crimini, attacchi alle persone e alle proprietà nei quartieri più ricchi).
Dagli scontri coi copti trapela la debolezza di un governo militare transitorio che vuole restare al potere, cosciente della situazione economica catastrofica del Paese e in corrotto controllo delle sue ricchezze e dei costosi armamenti di un esercito che ha perduto tutte le guerre contro Israele. Cristiani e Israele, su piani differenti, diventano bersagli di una dirigenza impaurita. I copti sono lasciati alle prese degli islamici per mantenere aperto il dialogo fra i generali e i Fratelli musulmani che, a loro volta, in epoca elettorale temono l'accusa di "tepore" verso i cristiani. Una minoranza considerata come «osceno nido di paganesimo» e che chiede uguaglianza politica e sociale. Quanto a Israele, solo Paese del Medio Oriente in cui il numero dei cristiani è raddoppiato dal 1948, la tensione con i copti protetti dall'Occidente e dalla Russia, anche se tradizionalmente antisionisti per paura dei musulmani, potrebbe trasformarsi in un pericoloso connubio.
Un risultato di questa ipocrita situazione è che Israele e la questione palestinese - ignorati dalla rivoluzione araba di luglio - riaffiorano come temi di propaganda nazionalista neo nasseriana. Lo dimostra il più gettonato candidato "laico" alla presidenza egiziana Amr Mussa, segretario uscente della Lega Araba ed ex ministro degli esteri di Mubarak, noto per la sua viscerale ostilità a Israele. Egli fa della revisione del trattato di pace con Israele e del patrocino egiziano della causa palestinese gli argomenti per ottenere il sostegno di ceti islamici anticristiani e di una intellighenzia convinta che, riaprendo il contenzioso con Israele, l'Egitto ritroverà un ruolo internazionale e più facilmente potrà battere cassa in America e in Europa.
La parola rivoluzione ha un doppio significato: lo sradicamento dal passato e la rotazione su se stessa. L'Egitto non ha ancora scelto. Ma il motto del Gattopardo «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» potrebbe diventare il nuovo slogan della controrivoluzione.
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