nostro inviato a Nablus
Una coda di un'ora, al check point di Nablus, nei Territori occupati, sotto il cielo arruffato di questa fine d'anno. La solita ressa di taxi gialli e di pullmini collettivi, su un fondale sonoro di clacson fiammeggianti, che fanno avanti e indietro sotto gli occhi arcigni dei giovanissimi soldati di Tsahal. Il solito marasma di uomini e donne che per entrare e uscire dalla città devono sottoporsi a umilianti attese e altrettanto umilianti perquisizioni, tra zaffate di gas di scarico che sporcano questa triste spianata di sassi, di copertoni di camion e di desolante plasticume multicolore.
Quasi un'ora e mezzo di viaggio per coprire la sessantina di chilometri da Gerusalemme, tra olivi, cipressi e fichi spogli, in un paesaggio che spesso somiglia a un teschio spolpato. Ma il viaggio valeva la pena. Perché è qui, nei Territori, quattro giorni dopo l'inizio dei bombardamenti a Gaza, che si riesce a cogliere tutto intero un fenomeno che all'inizio sconcerta, disorienta. Parlo della netta distanza psicologica, perfino sentimentale, che esiste fra i palestinesi della West Bank e quelli di Gaza; tra chi ha scelto di farsi rappresentare dalle barbe incendiarie di Hamas, e ora sta laggiù, a sfangarsela nel carcere a cielo aperto della Striscia arato dai caccia con la stella di David, e quelli di Al Fatah che ha tra queste lande ossute la sua roccaforte. È la “maggioranza silenziosa“, borghese, pacifista, consumista, che con Israele ha firmato la pace da anni, in cuor suo, anche se nessuno lo dice perché è politicamente maleducato dirlo.
Non c'è negozio di elettrodomestici, nel convulso centro cittadino dominato dall'immensa cattedrale in cui si officiano i soliti riti di tutti i centri commerciali del mondo, che non ostenti impennate di tv color sintonizzati su Al Arabya o su Al Jazeera. Sugli schermi, nelle dirette sterminate che impiombano mattine, pomeriggi e sere, passano e ripassano le immagini delle devastazioni compiute dai cacciabombardieri israeliani; le facce delle donne, dei bambini travolti dal mostro della guerra. Ma le facce di chi osserva sono neutre, inespressive. Non ci sono pugni chiusi, non slogan minacciosi, non striscioni, non cortei, per le strade di questa città che è il cuore commerciale della West Bank e che dopo il lutto cittadino di rito, a serrande abbassate, si è rituffata con la solita vorace libidine nel business. Basta col sangue, basta con gli ammazzamenti e i kamikaze e le lotte tra fazioni a base di sventagliate di mitra. Basta soprattutto con quelli che vogliono tenere in vita un sistema di potere che sulla legittima aspirazione di un popolo ad avere una terra e uno Stato ha costruito un sistema di potere fondato sul conflitto permanente. Questo dicono anche gli studenti che incontro all'università “An Najah“, un presepe di pietra bianca, moderno ed efficiente, formicolante di ragazzi e ragazze attesi dagli esami di fine anno.
E la “terza Intifada“? Che ne è stato della corale rivolta di popolo che partendo dalla Striscia di Gaza avrebbe dovuto mettere in ginocchio Israele? Possibile che stenti così tanto a partire?
«La terza Intifada, se la vogliono fare - mi risponde un po' imbarazzato Farag, 21 anni, studente alla facoltà di Giornalismo (ce n'è una anche a Nablus, ebbene sì)- possono farsela a Gaza quando vogliono. Qui abbiamo già dato. Nessuno vuole rinunciare al sacrosanto diritto di vedere gli israeliani fuori dalla nostra patria, sia chiaro. Ma la tattica del muro contro muro non funziona più. Se Hamas pensa di guadagnare consenso sul sangue di un popolo che già ne ha versato tanto, si sbaglia». Un gruppo di ragazze velate (le femmine sono il 56 per cento degli studenti) annuisce, sposando la linea di Farag.
Kherieh Kharouf, quarantenne direttrice della sezione Affari Internazionali dell'Università, si augura addirittura di «non vederla, questa terza Intifada». Bionda, i capelli raccolti sulla nuca, uno scialle bianco su un vestito nero, la dottoressa Kherieh è netta nei suoi convincimenti. Anche l'università di An Najah, l'anno scorso, è stata teatro di scontri tra fazioni avversarie di studenti, dice sedendo tra un grande ritratto di Arafat e uno di Abu Mazen, in quello che parrebbe il salone principale dell'Ammiragliato britannico ed è invece solo la sala riunioni del Rettorato. Da allora, è deciso. Niente più politica all'università. «Qui si viene per studiare.
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