I pedagoghi giacobini camuffati da libertari

Nel 1549 un giovane studente in legge dell’Università di Orléans, Étienne de La Boétie, scrive un pamphlet destinato a una significativa fortuna: Discorso sulla servitù volontaria. Nato a Sarlat nel 1530 e morto a Bordeaux nel 1563, amico tra i più intimi di Montaigne, La Boétie fu giurista e membro del Parlamento di Bordeaux. Nel Discorso, pubblicato postumo, egli cerca di rispondere alla domanda fondamentale che sostanzia tutta la scienza politica: perché alcuni uomini comandano e la stragrande maggioranza ubbidisce? Perché l’obbedienza si ritrova in qualsiasi tipo di società? E perché, ancor più, questa supina arrendevolezza dei più ai meno vige anche laddove vi è la più feroce tirannia? Non può esservi altra interpretazione che questa: perché gli uomini - quasi tutti gli uomini - accettano spontaneamente di sottomettersi al potere. Attivano cioè, volontariamente, la propria servitù. Certo, molte altre cause - storiche, economiche, sociali, religiose, culturali, ecc. - possono dar conto dei motivi per cui esiste il dominio dei pochi sui molti, ma, in ultima istanza, la ragione dipende dal fatto che vi è un consenso, proveniente dal basso, alla sua esistenza e persistenza.
Con questa spiegazione radicale, fondata su un ragionamento di carattere speculativo e astratto, la cui logica interna è di tipo deduttivo, La Boétie giungeva a criticare la natura di ogni potere, perché poneva la relazione necessaria tra coscienza e libertà, affidando quest’ultima alle decisioni insondabili del libero arbitrio, i cui anfratti rimangono oggi, come nella Francia del Cinquecento, irriducibili a ogni spiegazione ultima. Anticipava quel rapporto tra etica e politica che due secoli dopo sarà formulato in modo insuperabile da Kant, quando delineerà l’idea di autonomia dell’essere umano, e dunque, implicitamente, dell’autogoverno degli individui.
Additando nella coscienza la radice vera del problema, La Boétie formulava anche la sua soluzione. A suo giudizio, non ha alcun senso abbattere il potere - qualsiasi potere - con la forza o con qualsiasi altro mezzo, dato che non è sulla forza - o su qualsiasi altro mezzo - che esso si fonda, ma, prima di tutto, sul consenso. La forza è certamente efficace, ma solo se è espressione di una cosciente volontà di liberarsi del potere. Essendo diretta a fornire una critica universale dell’esistenza di ogni potere, è evidente che l’argomentazione di La Boétie sia stata classificata come anarchica, di ispirazione pacifista e non violenta. Non a caso, i teorici libertari che si sono maggiormente rifatti ai suoi convincimenti sono stati Tolstoj, Thoreau, Tucker e Landauer, cioè coloro che in qualche modo hanno sostenuto che, per liberarsi del potere, sia necessario togliergli il consenso, attivando la disobbedienza civile e la non violenza.
Tuttavia, e siamo al punto decisivo, tale volontà di liberazione acquista il suo vero significato soltanto se è diretta non ad abbattere un determinato potere, ma qualsiasi potere. Infatti liberarsi di un potere per poi sottomettersi a un altro potere vuol dire passare da una servitù volontaria a un’altra servitù volontaria.
Fin qui, molto schematicamente, il pensiero di La Boétie. Ci si domanda ora: che cosa c’entra tutto questo con l’Italia di oggi? Precisamente con il governo di Berlusconi e il cosiddetto «berlusconismo»? Risposta: non c’entra nulla, assolutamente nulla. Non sembra però pensarla così Paolo Flores d’Arcais, il quale nella sua introduzione a una nuova edizione del Discorso sulla servitù volontaria (Chiarelettere, pagg. 72, euro 7), aggancia il libertarismo del pensatore francese alla situazione odierna, anche se non accenna in modo esplicito al Cavaliere. Ugualmente, sempre in modo allusivo, risultano nella stessa direzione anche i due interventi di Adriano Prosperi e di Gustavo Zagrebelsky apparsi nei giorni scorsi sulla Repubblica. Costoro, sia pure in modo diverso, applicano lo schema interpretativo di La Boétie all’Italia di oggi, che si sarebbe posta volontariamente, asservendosi, nelle mani di un tiranno, il cui sistema di dominio è fondato sul conformismo, sulla corruzione e sulla mercificazione universale: una realtà da «basso impero».
Le osservazioni di Flores d’Arcais (che peraltro nell’introduzione sottolinea giustamente il problema del potere in quanto tale), di Prosperi e di Zagrebelsky ripetono l’errore degli scrittori ugonotti di fede monarchica i quali, fraintendendo grossolanamente il pensiero di La Boétie, cercavano di strumentalizzarlo per fini di contingente lotta politica. Gli ugonotti, infatti (siamo nella Francia delle guerre di religione), rivendicavano il diritto dei sudditi di resistere contro i dominatori ingiusti, sostenendo quindi, di fatto, l’idea che fosse giusto combattere un determinato potere perché quello che essi appoggiavano sarebbe stato sicuramente migliore. Non combattevano, cioè, il potere in quanto tale, ma promuovevano alcune specifiche libertà all’interno dello Stato francese, ricorrendo ad argomentazioni di carattere storico e giuridico, le quali non potevano che risultare in netto contrasto con l’universalità del pensiero di La Boétie.
Se si rimane all’interno della prospettiva del pensatore francese, si deve infatti convenire che la libertà può essere raggiunta soltanto se si ha la coscienza e la volontà di volerla. Ne consegue che non vi è altra soluzione che questa: ritenere, sempre, che gli uomini siano autonomi, coscienti, adulti, capaci di intendere e di volere. Il che significa lasciarli liberi di scegliere, volontariamente, ciò che intendono volere.

Non ha alcun senso - sempre nella prospettiva di La Boétie - anteporre (in modo poco liberale e libertario) la virtù alla libertà, attivando una sorta di pedagogia giacobina e repubblicana diretta a riportare i cittadini a una supposta, vera coscienza civile.

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