I sottotitoli in cinese al cinema? Addio integrazione

Si fa presto a dire integrazione. Tutti si riempiono la bocca con questa parola e poi tutti la smentiscono molto in fretta. Prendete il caso di San Donnino, nell’hinterland fiornentino, dove è stata proiettata per la prima volta in Italia un film con i sottotitoli in cinese. È «La marea silenziosa», film italianissimo eppure tradotto in ideogrammi per garantire alla numerosa comunità cinese della periferia di Firenze.
Una scelta legittima, certo. Legittima perché può essere vincente dal punto di vista commerciale. In quella zona, infatti, c’è un’immigrazione anche di vecchia data - molti sono giunti qui a San Donnino negli anni Settanta -, oggi sono circa 700-800 i cittadini dalla Repubblica cinese, la metà della popolazione di stranieri. Non è un caso che in quell’area, esattamente a Capi Bisenzio, dal 2008 c’è il primo assessore cinese in un’amministrazione italiana, Hongyu Lin, 42 anni, originaria di Shenyang.
Il problema non è questo, allora. Non è cioè la voglia di coinvolgere e anche di utilizzare la comunità cinese come mercato. Anzi. Il problema semmai è la celebre integrazione. Perché iniziative come questa sono esattamente il contrario. Fino a quando gli stranieri, cinesi o di altre nazionalità, non saranno «costretti» a conoscere nei dettagli la nostra cultura e la nostra lingua, non avremo mai una vera forma di integrazione. La lingua, già. In molti Paesi è elemento essenziale per l’ottenimento addirittura del permesso di soggiorno. Senza arrivare a questi che qualcuno può considerare degli eccessi, è però giusto ricordare che l’Italia ha già cominciato a richiedere conoscenza della nostra cultura e della nostra lingua a quegli stranieri che vogliono ottenere il permesso di soggiorno illimitato. Seppur con maldestre domande e con maldestre considerazioni, questo è un punto di non ritorno: come fa a integrarsi uno che non decide di conoscere alla perfezione la lingua del Paese che lo ospita?
Questo vale a maggior ragione con la comunità cinese, la quale non ha alcun problema di integrazione economica: da sempre i cinesi lavorano tanto e spesso riescono anche a creare occupazione per altri cinesi. Ciò che invece rappresenta una enorme difficoltà è l’integrazione sociale: i cinesi sono un gruppo chiuso, isolato, che come si vede nelle più grandi metropoli del mondo, ricrea delle Chinatown molto ristrette, dalle quali la comunità raramente esce. Ricordate gli scontri di Chinatown a Milano di qualche anno fa? Tutti, ma proprio tutti si scagliarono contro il modello fallito di integrazione con la comunità cinese: non volevano più i quartieri monoetnici, criticavano la scelta di creare quelli che chiamavano tutti «ghetti». Ecco, adesso evidentemente hanno cambiato idea. O semplicemente non si pongono più il problema perché non ci sono stati altri casi e perché la cronaca non offre spunti sui quali piombare per sentirsi il centro del mondo.
Quindi i cinesi restano confinati nelle loro strade, con la loro cultura, la loro lingua, il loro lavoro. Questo è il contrario dell’integrazione, ma ha un effetto contenuto se nel resto della città che li ospita sono costretti a interagire in lingua italiana e cercando di sforzarsi di comprendere le logighe e la cultura italiana.

Se anche in quelle circostanze, non gli si offre l’obbligo di italianizzarsi, allora la partita è persa. I sottotitoli in cinese per un film italiano sono una sconfitta, altro che vittoria. Significano che abbiamo abdicato e che abbiamo rinunciato a voler integrare davvero gli stranieri.

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