I terrificanti anni '70 sono diventati eterni

C’è un’élite di ex rivoluzionari che si oppone a ogni cambiamento. Costringendo il Paese all’immobilità

I terrificanti anni '70 sono diventati eterni

Quarant’anni costituiscono un intervallo temporale enorme, dal punto di vista storico rappresentano quasi un’era geologica. Sono la metà, forse più, della vita di un uomo, durante la quale egli vede intorno a sé mutare tutto: le conformazioni sociali, le ideologie, la struttura economica, le gerarchie, la classe dirigente e la cultura. Quarant'anni sono, all’incirca, il tempo che separa la fine del periodo napoleonico dall’unità d’Italia, e l’epoca di Cavour da quella di Giolitti, e quella di Giolitti da quella di De Gasperi, ciascuna delle quali ha mostrato caratteri sideralmente lontani da quella che l’aveva preceduta.

Sono un lasso di tempo sufficiente perché avvengano rivolgimenti epocali, rapidi o anche graduali e progressivi. In quarant’anni hanno fatto in tempo a passare due guerre mondiali, una dittatura, una liberazione e qualche bomba atomica, sono bastati, in Russia, per passare dalla servitù della gleba alle missioni spaziali e, in tempi antichi e quindi più lenti, per passare dalla repubblica romana all’impero c’è voluto anche meno.

Eppure ci sono quarant’anni, gli ultimi trascorsi e iniziati un po’ in anticipo nel 1968, che nel nostro paese sembrano non dover passare mai. Attorno a noi tutto si è trasformato: il fordismo è finito, i mezzi di comunicazione sono esplosi, ideologie capaci di ammaliare le masse sono svanite da un giorno all’altro, e con esse modelli sociali ed economici diffusi in tutti i continenti, acquistiamo il giornale pagando con un’altra moneta, e perfino la carta geografica, confrontata a quella di quarant’anni fa, appare irriconoscibile. E malgrado tutto questo, in questa strana penisola che pur ha saputo essere per secoli fonte di innovazione culturale, economica e politica come nessun altro posto al mondo, qualcosa continua a inchiodarci a un decennio, gli anni Settanta, che minaccia di divenire eterno.

Forze sociali minoritarie, ma robuste e molto ben strutturate, cercano di costringerci a lavorare allo stesso modo, leggere gli stessi libri, cantare le stesse canzoni, insegnare le stesse materie, andare in pensione alla stessa maniera, pagare le stesse tasse, ricevere gli stessi servizi, fare gli stessi scioperi, vegliare nelle stesse trincee, venerare gli stessi idoli e proclamare gli stessi estenuanti luoghi comuni nello stesso desolante conformismo.

Un luogocomunismo che affligge, innanzitutto, una parte della classe dirigente a tutti i livelli e in tutti i settori, a cominciare da quello dell’industria culturale. Una classe dirigente, la cui cultura si forma proprio in quegli anni e sui loro dogmi, che assume come modello di virtù, strumento di legittimazione di sé e del proprio ruolo. E da lì, dalla plancia di comando conquistata a suo tempo e mai abbandonata, grazie alla sovrarappresentazione che il suo ruolo le offre, continua a imporli a un paese che di restare inchiodato a quell’epoca tetra non ne vuole e non ne ha mai voluto sapere, e che li sente estranei, ammesso che ci sia mai stato un tempo in cui li ha condivisi. Non ci crede, né c’è mai stato un momento in cui ci ha davvero creduto.

Ma non è un’attenuante, semmai un’aggravante, che rivela l’indole cinica di quel segmento di ceto politico, intellettuale, dirigente che ha emesso i primi, già presuntuosi, vagiti nelle aule magne sessantottesche e si è consolidato lungo il decennio successivo, scalando posizioni, rivendicando privilegi, conquistando ruoli di potere. E continua a detenerli. La rivoluzione, il collettivismo, la questione sociale, e poi quella morale, la presunta preparazione culturale, e poi ancora l’onestà autocertificata, la retorica della «parte migliore del paese» o del «ceto medio riflessivo», il liberalismo da terza via predicato con la stessa dogmatica supponenza con cui si era proclamato il suo contrario. Quella che pretende di occupare la scena da quarant’anni è una minoranza guidata da portabandiera spregiudicati. Una minoranza capace di indossare, alla bisogna, le vesti più varie con stupefacente disinvoltura.

Veri e propri predestinati, invariabilmente gli stessi, che si autoattribuiscono l’investitura di interpreti del progresso e delle sue necessità storiche. E poi l’indole autocelebrativa generazionale, in un panorama in cui cambiano i meriti di cui vantarsi ma non chi li rivendica per sé. Quella dell’autocelebrazione, del resto, è una necessità congenita per sostenere un ruolo la cui legittimità, se valutata sulla base dei risultati conseguiti o dell’aderenza a valori o aspirazioni davvero avvertiti nel paese, farebbe acqua da tutte le parti. Dalla necessità identitaria, precisamente quella di sentirsi la parte migliore del paese, alla presenza di qualcuno, sufficientemente potente e ascoltato, che insorga ogni volta che un vento di modernizzazione prende a solcare la società mettendo in discussione privilegi generazionali che è vitale poter spacciare per diritti, sorvolando sul fatto che sono diritti strani, diritti che non spettano a tutti. Il passato, e le forze sociali che in una delle sue fasi più fosche sono prevalse, si sforza di ipotecare il presente e il futuro.

È soltanto così che si spiega l’avvilente fissità in cui una generazione continua a specchiarsi, e il resto del paese a dibattersi, senza trovare vie d’uscita: semplicemente la modernizzazione contrasta con gli interessi di una classe e, perciò, dei suoi aedi e portabandiera. Una generazione che ha goduto e gode di un livello di spesa pubblica incredibilmente elevato e responsabile del terzo debito pubblico del mondo, nato proprio in quegli anni, a dispetto di qualunque luogo comune interessato che ne colloca la genesi al decennio successivo; che ha preteso e ottenuto tutele lavoristiche sconosciute ai suoi padri e, proprio a causa dell’ostinazione a volerle a dispetto di qualunque mutamento produttivo, anche ai suoi figli; che va in pensione prima e meglio di loro; che ha voluto e seguita a difendere un welfare ritagliato su un mondo che non esiste più; che ha invaso il pubblico impiego, trasformato in ammortizzatore sociale, a scapito della qualità dei servizi pubblici, a cominciare da scuola e università; che fa di un conservatorismo istituzionale esasperato la sua bandiera, idolatra l’assetto costituzionale e partitico postbellico, assumendosi meriti che spettano, semmai, ai suoi padri, e nel quale scorge una necessità vitale: quella della paralisi decisionale, vero e proprio ossigeno per chi ha tutto l’interesse a conservare un esistente che la favorisce e vede perciò con terrore qualunque riforma, e anche la semplice possibilità di farla; occupa, infine, l’immaginario collettivo, grazie al dominio dell’industria culturale, infliggendoci i suoi gusti, i suoi tic intellettuali, le sue canzoni, i suoi libri, i suoi film, strumenti apparentemente innocui ma utili, anche loro, a ottenere lo scopo di spacciare per il bene di tutti ciò che rimane l’interesse di alcuni.

Ed è, in definitiva, proprio questa la ragione per cui gli anni Settanta non riescono in nessun modo a passare: la celebrazione immeritata di un decennio passato si traduce nell’estetica del veto presente, e raccontare che quel mondo era perfetto serve a farlo durare più a lungo, insieme alle gerarchie sociali che vi sono sorte, agli interessi che lo hanno percorso, alle forze economiche e sociali che lo hanno dominato e che, a dispetto di ogni evoluzione storica, vorrebbero continuare a egemonizzare il presente.

Non vi è, da un trentennio, istanza di modernizzazione che non si sia dovuta scontrare con la resistenza strenua della generazione degli anni Settanta: la grande riforma istituzionale di Craxi, il referendum sulla scala mobile, un numero di interventi sulla previdenza del quale è ormai difficile tenere il conto, una quantità se possibile ancora più elevata di tentativi di riforma della scuola e dell’università, ripetuti disegni di adeguamento del mercato del lavoro, sforzi di risanamento dei conti pubblici che si infrangono sistematicamente contro le stesse resistenze corporative.

* Ministro del Lavoro
e delle Politiche sociali

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