Roma - Due piccioni con una Thaler (Helga). Oppure: dalla «questione settentrionale» (emersa dal risultato elettorale) a quella «altoatesina» (posta dalla Svp). Di certo, la folle condizione di precarietà numerica della maggioranza a Palazzo Madama ieri ha prodotto l’ennesimo cortocircuito, l’ennesima battaglia di baratto - il mio voto per un buono benzina - e un giro di valzer da mercato delle vacche, se è vero che fino all’ultimo, i due ribelli sudtirolesi che avevano annunciato il loro «non-voto» contro il governo, hanno chiesto a gran voce un segnale di discontinuità in politica economica: partiti nel pomeriggio con sogni imprecisati che i boatos di corridoio quantificavano, nientemeno, nella richiesta di qualche punto di aliquota (altro che Giulio Tremonti), chiudono la serata con qualche centesimo di accisa (meglio che niente).
Per ricapitolare. Da mesi, a ogni voto di fiducia, una particella della maggioranza (a turno tutti) si stacca e reclama un prezzo per il suo sempre più sofferto sì: prima Giulio Andreotti rompe la compattezza del gruppo delle Autonomie sulla presidenza della Camera (e ironia della sorte viene criticato dalla stessa Thaler!); quindi si passa al senatore De Gregorio, che lascia l’Unione in polemica sulla politica bellica; infine si staccano due deputati del Pdci e di Rifondazione, Rossi e Turigliatto, contro la base Nato (e vengono espulsi!).
Ieri l’ennesimo psicodramma dell’Unione inizia quando dalla lettura dei giornali si apprende che i due senatori Svp, Helga Thaler (nella foto) Ausserhofer e Manfred Pinzger, critici con la politica fiscale, sono pronti a votare no. La sequenza dei fatti che seguono merita di essere raccontata per punti, come se fosse una sceneggiatura di una commedia all’italiana. 1) Di prima mattina i due solcano il «Transatlantico» del Senato, facendo capire con teutonica discrezione che sì, il rischio c’è. 2) Alle 10.20, a dimostrazione che anche la disciplina teutonica non esiste più, arriva il primo contrordine. Il leader Svp Luis Durnwalder, spiega che non è così, che dev’essere sicuramente un equivoco e spiega: «Certo, siamo critici verso la politica fiscale del governo, soprattutto per una mancanza di coordinamento. Ma siamo un partito affidabile, sono convinto che anche i nostri senatori voteranno con la maggioranza». 3) Alle 10.57, il contrordine del contrordine. Uno dei due ribelli spiega che no, a lui l’idea di votare Vincenzo Visco fa venire l’orticaria: «La gente non è contenta. Loro vogliono un voto su Visco, che è viceministro con delega sulle questioni fiscali. Non so se darò questo voto». Segue una spolveratura di thrilling: «Il mio voto è incerto, non sono affatto convinto. Bisogna vedere come andranno questa giornata e il dibattito». Ogni notizia di agenzia fa salire e scendere le quotazioni del governo, con la stessa velocità delle azioni dell’Alitalia nei giorni di sciopero. 4) Alle 15 un altro tormentone si diffonde in Transatlantico, nel centrosinistra: «Tutto risolto, hanno trovato l’accordo sulla riduzione del prezzo della benzina». Possibile? La notizia non è ufficiale, ma è sulla bocca di tutti. 5) Alle 15.57, entra in scena un nuovo personaggio, e gli sceneggiatori della telenovela riportano la trama nell’incertezza: «Chiediamo con forza - afferma in Aula Oskar Peterlini, capogruppo delle Autonomie, il terzo senatore dell’Svp - una svolta nell’impostazione fiscale che già, con la Finanziaria, ha colpito piccole e medie imprese». E poi, alimentando il mistero: «I senatori della Suedtiroler Volkspartei fanno dipendere il loro voto sulla mozione di maggioranza sul caso Visco, dalle rassicurazioni che il governo fornirà in materia di politica fiscale». 6) Ore 19.50, primo sottofinale a Happy End: il ministro Padoa-Schioppa, pur nella consueta e ficcante oratoria ottocentesca, offre un calumet di pace alla tribù degli altoatesini insorti, nel corso del suo intervento: «Sono pronto ad approfondire le richieste dell’Svp». Ergo: la trattativa va a buon fine, tutto risolto, amen. 7) Ore 21.55, secondo sottofinale, stavolta buddy-buddy, non promette nulla di buono. Mozzando i sospiri di sollievo che iniziavano a dilatarsi nel petto degli uomini di maggioranza (uno dei quali, lo stoico Salvatore Buonadonna resiste in Aula tenendosi sulle stampelle per via di una brutta frattura) il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro guasta la festa. «La vicenda, superato lo scoglio della fiducia - dice - merita, nelle sedi opportune a partire da quelle giudiziarie, un’approfondita e indispensabile valutazione».
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