"Identità, storia, America. Tutto in un aneddoto"

Il vincitore del Pulitzer: "Harold Bloom mi narrò un episodio legato al padre di Netanyahu..."

"Identità, storia, America. Tutto in un aneddoto"

I Netanyahu, il romanzo con cui Joshua Cohen ha vinto il Pulitzer 2022 (come gli altri suoi libri edito da Codice, pagg. 271, euro 20) ha un titolo che fa subito pensare alla politica e a un conflitto apparentemente irrisolvibile. Però il sottotitolo ci dà un indizio sull'ironia con cui questi temi molto seri siano affrontati: «Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile nella storia di una famiglia illustre». Del resto, se a raccontarti questo episodio è stato il leggendario Harold Bloom... Il quale, quando era un giovane studioso alla Cornell, si trovò a fare da chaperon a un altro professore, ebreo come lui, esperto di inquisizione spagnola, in visita per un colloquio di lavoro. Il professore si chiamava Ben-Zion Netanyahu e si presentò con la moglie e i tre figli, fra cui il piccolo Benjamin, futuro Primo ministro di Israele, e l'incontro fu... un disastro, almeno nel racconto del grande critico americano, morto nel 2019. Il tutto è trasposto, romanzescamente, nell'inverno del 1959-60 alla Corbin University, nel Nord dello Stato di New York, e Bloom si chiama Ruben Blum, professore di storia economica americana. Dei Netanyahu Joshua Cohen parlerà sabato 17 settembre a Pordenonelegge (ore 21), il Festival del Libro con gli autori (14-18 settembre). Risponde al telefono da Tel Aviv, anche se vive a New York ed è nato (nel 1980) ad Atlantic City («in New Jersey: noi, per quelli di New York, siamo il Sud...»).

Che rapporto aveva con Bloom?

«Credo di aver visto un suo lato un po' diverso, essendo molto più giovane. Verso la fine della sua vita era una figura pubblica, ma controversa, e non godeva più di buona salute. Voleva lasciare un segno di quanto fosse ancora pieno di energia e così, per la prima volta, pensò a un memoir».

La contattò per quello?

«Non aveva mai parlato di sé. Però non voleva che, ad aiutarlo, fosse qualcuno dell'università, e specialmente di Yale, perché si sentiva incompreso dal mondo accademico. E così gli venne l'idea che potessi aiutarlo io».

Come andò?

«Capii subito che sarebbe stato impossibile, perché fisicamente non poteva lavorare troppo a lungo. Però mi raccontò molte storie, di lui outsider dell'accademia, dei suoi tentativi di cambiarla dall'interno, e poi su Saul Bellow, Philip Roth, Anthony Burgess... Per tutti, Bloom era come una montagna, qualcosa che è sempre lì, ma anche lui, dall'infanzia nel Bronx in poi, aveva inventato sé stesso. E, fra le tante storie che mi raccontò, c'era quella su Netanyahu. C'era la tv accesa e Bibi era apparso sulla Cnn. E Harold: Ho incontrato quell'uomo, aveva dieci anni, era col padre...».

E poi?

«Poi Harold morì, io riascoltai le registrazioni e l'aneddoto mi colpì. Era l'aprile del 2020, durante il primo lockdown a New York e ho pensato che, se volevo fare qualcosa di veramente stupido, beh, quello era il momento giusto. E l'ho fatto: campus novel e romanzo storico, due generi che non ho mai frequentato. E commedia, anche se non lo sapevo ancora. Ho scritto le bozze in due settimane».

Qual è il rapporto tra fatti storici e finzione?

«Ho deciso che sarebbe stato tutto vero, eccetto quello che succede nel weekend della visita. Il romanzo di fatto si svolge in due giorni: quello di preparazione alla visita, pieno di ricordi, e quello dell'incontro. Tutto quello che succede prima della richiesta di fare da ospite al professore, e che viene ricordato, è vero».

Perché fa di Bloom/Blum un esperto di tasse?

«Ben-Zion Netanyahu era uno studioso del ruolo dell'ebreo nelle corti spagnole medievali: una figura usata dalla nobiltà per raccogliere le tasse, e poi investirne i frutti. È interessante che persista ancora oggi, se si pensa a Kissinger. Poi ero così affascinato da Harold, che dovevo farne una persona normale... E c'è anche un legame con le sue teorie».

Quale?

«Lui aveva questa idea che tutto sia già stato pensato, scritto o creato e che, di conseguenza, ogni scrittore ne soffra. Quindi uno scrittore deve sviluppare una certa attitudine verso il passato, cioè una incomprensione, o una interpretazione errata, grazie alle quali si convince che le sue opere potranno cambiare le cose. Da qui è nata in me la domanda sul passato e su ciò verso cui siamo debitori... E così ho fatto del professor Blum non un critico letterario, bensì un professore di storia della tassazione americana».

Nel libro si parla molto, in termini critici e umoristici, della «cultura della lamentela».

«Ben-Zion Netanyahu era nato sotto l'Impero Asburgico e, quando esso si fratturò, nacquero una serie di tribalismi, fra cui il sionismo. Anche allora, le persone sentivano di non avere una fetta uguale agli altri. Oggi molti usano l'unica arma che hanno, cioè le parole, per gridare alla discriminazione, all'insulto, anche quando il contenzioso di cui parlano è falso; ma ripeto, usano la loro unica arma, per ottenere ciò che vogliono».

Che cosa?

«Sopravvivenza, avidità... Sono modi di ottenere il potere. La storia è piena di classi oppresse che si oppongono a chi controlla tutto».

A furia di gridare alla tolleranza non si diventa intolleranti?

«Non è la prima volta che la sinistra scopre l'ironia... È un esercizio di branding. Molto americano. Fra la Coca Cola e la Pepsi, la cancel culture. È parte di un'industria».

Però non si definisce come tale.

«Vero, però è parte del fatto di essere dei beni in una economia liberale. Il mio, per esempio, non lo considero un lavoro. Molta di questa cancel culture nasce nell'industria, e io non sono uno da carriera in ufficio».

Quindi anche l'accademia è un'industria?

«Assolutamente. E, da scrittore, ho ricevuto così tanti rifiuti che ho smesso di chiedermi che cosa pensino l'editoria e l'industria».

Però ha vinto il Pulitzer.

«Una grande sorpresa».

Il fatto di affrontare un tema come l'antisemitismo ha contribuito?

«È un simbolo. Un'occasione per parlare dell'identità in America, perché molti discorsi sono estremi, del tipo: tutti i bianchi sono razzisti e tutti i neri sono oppressi; invece c'è qualcosa in mezzo, fra queste pretese identitarie, che fa parte della vita americana».

Che cos'è?

«L'America è divisa fra due narrazioni: una è quella dell'immigrazione, del sogno americano; l'altra è quella della schiavitù. E sono entrambe vere, e noi dobbiamo convivere col fatto che siano entrambe vere. Viviamo in un Paese di tante bandiere, tutti sperimentiamo queste pretese e tutti siamo definiti dalla nostra identità, nel bene e nel male. E a me è venuto naturale dirlo parlando dell'esperienza degli ebrei americani».

Blum è un personaggio alla Woody Allen.

«Mi sono ispirato a Svevo e al suo Zeno. Sfortunato, pieno di nevrosi, ridicolo: lo amo».

I Netanyahu, intesi come famiglia, nel romanzo non fanno un figurone. Ha ricevuto molte critiche?

«Critiche non sui fatti, ma perché, secondo alcuni, sarei stato ingiusto, o politicamente miope».

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