Roma - Per ora la sua parola d’ordine è, come in un film di René Clair, il silenzio è d’oro. Mentre scende in campo su La Repubblica Romano Prodi per dire che malgrado il tracollo nelle urne la sua ricetta non cambia, mentre nel Partito democratico già si affilano il coltelli per decidere chi conta nella stanza dei bottoni, lui evita interviste ed esternazioni, cerca di non farsi tirare - per ora - dentro il gorgo del processo alla sconfitta.
Mai silenzio è stato più carico di implicazioni, perché il tracollo del simbolo dell’Ulivo accelera i tempi anche per lui, che prudentemente, da mesi, spiegava di considerare il Pd una fusione «a freddo». E così Walter Veltroni adesso si prepara alla partita a scacchi più difficile della sua vita, quello che lo vede contemporanemente leader «designato» (sicuramente il più popolare fra gli elettori, per ora), ma anche leader «osteggiato» (sicuramente il più inviso dai leader suoi coetanei, per sempre).
Da domenica la strada di Veltroni verso la nomination è irta di nuovi ostacoli. Ieri, in un sondaggio lampo sul sito Repubblica.it i lettori del quotidiano più vicino al centrosinistra, dovendo scegliere fra venti nomi in rigoroso ordine alfabetico (e il suo era per evidenti motivi l’ultimo) lo incoronavano virtualmente candidato premier a furor di popolo: per il 46% dei 47mila che hanno risposto il candidato ideale è lui. Seguono gli altri, con consensi molto più ridotti: Anna Finocchiaro (che molti vorrebbero in pista per sbarrargli il passo con il prestigio di «una donna») all’11%. E Pierluigi Bersani al 10%. E poi una raffica di leader di prima fila con percentuali da prefisso telefonico: Prodi e Massimo D’Alema raccolgono appena il 5%, Sergio Cofferati il 4%, Rosy Bindi e Massimo Cacciari il 3%. Al 2% ci sono Enrico Letta, Piero Fassino, Sergio Chiamparino e Riccardo Illy. Nel formato lillipuziano dell’1% si collocano Francesco Rutelli, Giovanna Melandri e Dario Franceschini.
In un quadro di questo tipo, le difficoltà per Veltroni aumentano: se si accorciano i tempi per la designazione della nuova guida del Pd (segretario o speaker che sia), lui perde margini di manovra, e deve decidere in tempi rapidissimi se abbandonare le schermaglie e candidarsi. Ma accelerare la discesa in campo significa anche prepararsi a una «traversata nel deserto» che comporta, salvo imprevisti, almeno due anni di apnea e di dualismo inevitabile con il premier in carica. Se si prende tempo, diventa più facile scendere in campo come «salvatore della patria», ma più difficile recuperare la drastica spirale del calo dei consensi.
E intanto i fuochi di sbarramento preventivo e i moti di insofferenza non mancano. Persino Cesare Salvi, ieri lo punzecchiava: «Veltroni fa il sindaco di Roma. Se vuole fare il capo del Pd sono fatti suoi. Il problema che abbiamo adesso è il problema dell’Italia. Non chi farà il capo di non si sa che cosa perché - osservava il dirigente di Sinistra Democratica - ma che se si va avanti di questo passo torna Berlusconi». Anche perché nessuno ha dimenticato l’intervista di Massimo D’Alema al Corriere della Sera che con tono apparentemente «affettuoso» (ma quando mai...) lo avvisava di «non farsi mal consigliare dai suoi sponsor (De Benedetti? Paolo Mieli e il Corriere?).
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