È finita la schermaglia, continua la lotta per dare forma a un «nuovo Pakistan» dopo la partenza di Pervez Musharraf. La disponibilità alle dimissioni era nell'aria. Le hanno ritardate soltanto le essenziali trattative sullo scambio di favori da qualche tempo considerato inevitabile: Musharraf abbandona il potere, il nuovo potere gli garantisce l'immunità. Niente rivoluzioni, dunque, e neppure golpe di palazzo: solo un compromesso. Solo dei «puristi» lo rimpiangeranno, più in Occidente che in Pakistan, degli idealisti che avrebbero preferito una resa dei conti con, se non un impensabile vincitore assoluto, almeno un assoluto perdente. Non poteva andare così se non a costi tanto alti da essere inimmaginabili.
Costerà anche parecchio, richiederà diplomazia, denari e pazienza costruirne a poco a poco uno non nuovo ma ragionevolmente rammodernato. La posta in gioco e le sue ripercussioni in metà del pianeta non consentono alternative serie. Le sorti personali di Musharraf rimarranno sulle prime pagine per il tempo necessario, mentre già si sarà cominciato a parlare e ad agire per il futuro. Perché, se è vero che le cose non potevano continuare ad andare eternamente così in un Paese di grandi dimensioni (il secondo Stato islamico del mondo), collocato su una delle faglie più pericolose del pianeta, superpovero quanto sovrappopolato, circondato da nemici o almeno da rivali, fornito di un arsenale nucleare che è stato finora nelle aspirazioni e rimarrà a lungo nei sogni della classe dirigente del confinante Iran, il Pakistan potrà essere una delle chiavi per una sistemazione del «più grande Medio Oriente» oppure prima o poi diventerà il terreno dove le crisi locali e latenti potrebbero detonare in un ordine di grandezza mai visto finora.
È importante, ma meno rispetto alle dimensioni cui si è accennato, sapere chi raccoglierà il potere caduto dalle mani di uno dei dittatori più deboli della storia, capace di rovesciare il regime precedente, incapace di governare senza l'appoggio «incrociato» delle due forze più antagonistiche di questo inizio di XXI secolo: l'America e il fondamentalismo islamico. Dalla corda tesa sull'abisso fra Bush e Bin Laden egli ha cercato soprattutto, disperatamente, di non precipitare e, in sostanza, non poteva fare altro. Proprio a lui era in gran parte rivolto l'aut aut di Bush all'immediato indomani della strage terroristica del settembre 2001: o con noi o con loro. Una scelta che turberà i sonni e rallenterà le azioni di chiunque, dei redivivi esponenti della Lega pachistana musulmana oppure degli eredi di Benazir Bhutto.
Il Pakistan non può tirare avanti senza gli Stati Uniti ma al tempo stesso il Pakistan è inconcepibile senza l'islamismo. Lo si è visto durante la lunga penultima guerra afghana: di lì transitavano le armi rivolte ai guerriglieri in campo contro i sovietici, di lì i rifornimenti militari Usa, di lì i finanziamenti sauditi alle madrasse integraliste, di lì Osama Bin Laden con i suoi «combattenti islamici». Tale convergenza era nella natura stessa non del regime ma della società pachistana: forze armate ancora addestrate dagli inglesi, un governo antisovietico nella misura in cui l'India era pro sovietica, attratto dunque fin dall'inizio nell'orbita americana, il Pakistan non si è mai potuto, né sostanzialmente ha voluto, liberare del suo marchio di origine: il primo Paese dell'era moderna a nascere basato unicamente sulla religione, sul rifiuto di milioni di musulmani di India di uscire da un regime coloniale in unindipendenza laica. La sanguinosa guerra civile che «inaugurò» entrambi i Paesi del subcontinente. Una progenitura integralista con una data precisa: il 1947. Il «ritorno» dell'Islam politico non è dunque unicamente attribuibile, come troppi fanno alla fondazione di Israele e alla prima guerra fra arabi ed ebrei.
Un arco lungo, di cui è stato solo un capitolo, ma coerente col resto, l'appoggio di ogni genere al regime talebano, anche in contrapposizione al grande rivale «teologico» e pratico, cioè l'Iran. Troppi problemi troppo insolubili: era impossibile che il Pakistan decollasse molto meglio di come ha fatto. Musharraf non è stato il primo dittatore. È augurabile, ma non certo, che sia stato l'ultimo.
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