Politica

Addio Andreotti, asso della politica e statista mancato

Per settant'anni è stato protagonista instancabile nelle stanze del potere. Disinvolto fino al cinismo, non seppe trovare il coraggio del rischio

Addio Andreotti, asso della politica e statista mancato

Quando si accennava alla sua vecchiezza, Giulio Andreotti diceva di sentirsi in prorogatio: in linguaggio calcistico un tempo supplementare che la provvidenza gli aveva concesso. La prorogatio è finita, e l'uomo che ha impersonato al meglio il peggio della politica italiana deve affrontare la postuma ondata dei ricordi, dei rimpianti, dei giudizi, delle accuse. Il divo Giulio, che fu durante sette decenni una presenza costante sulla scena pubblica, parlava spesso della morte, anche della sua. Nella introduzione a uno dei numerosi «Visti da vicino» aveva ipotizzato l'opportunità d'una biografia autorizzata che lo riguardasse, e della quale per maggiore sicurezza lui stesso fosse autore: ad evitare o almeno a controbilanciare le malignità dei molti detrattori. Cito. «L'autobiografia, in fondo, è anche un'assicurazione sulla morte. Ad evitare che, senza che abbiate più la possibilità di reagire, qualcuno vi attribuisca virtù mai avute e vi addebiti ingiustamente atti e comportamenti negativi, magari ignorando quel che di voi andava deplorato».
Non eviterà. La sua esistenza, così lunga e così densa d'avvenimenti, si presta a tutto. Alle sperticate lodi commemorative e alla spietata damnatio memoriae. Credo tuttavia che nessuno potrà negare ad Andreotti quella che è stata la sua qualità più evidente: una capacità di lavoro quasi sovrumana, protagonista di innumerevoli incontri nazionali e internazionali non s'è mai presentato anche a uno solo senza avere letto e valutato le carte. Non ha lasciato senza risposta neppure una lettera, a molto rispondendo con biglietti vergati nella sua scrittura minuta e chiarissima, una scrittura antica. Di questa assiduità epistolare ho avuto più volte prova personale nei commenti a qualche mia nota che lo riguardava. Poiché recensendo un suo libro avevo affermato, riferendomi ad alcuni passaggi, che la sua penna era a volte intinta nel veleno, m'aveva ironicamente promesso d'intingerla, da allora in poi, nel miele. Dalle voci che correvano su un Andreotti Belzebù, avvelenatore in senso figurato o forse addirittura in concreto, Montanelli aveva tratto spunto per un controcorrente in cui lodava il coraggio di Craxi. Durante un discorso di presentazione del suo governo alla camera Craxi aveva due volte fatto cenno di voler bere; per due volte Andreotti, ministro, gli aveva porto il bicchiere colmo d'acqua, e per due volte Craxi aveva bevuto.
Autore molto popolare e molto lodato, Andreotti aveva in realtà - secondo Montanelli e secondo me - una prosa un po' legnosa e burocratica. Ma raccontava sempre cose interessanti, e inseriva nelle pagine notazioni folgoranti. «Non è un umorista, è un battutista» sosteneva Indro. Aggiungo un piccolo particolare a questi cenni editoriali. Uno dei libri della Storia d'Italia Montanelli-Cervi avrebbe dovuto essere intitolato «L'Italia di De Gasperi». Ma l'editore Rizzoli, che aveva appena mandato in libreria un volume di Andreotti su De Gasperi, ci pregò di cambiare. E il libro si chiamò «L'Italia del miracolo».
Andreotti non può avere, a mio avviso, la qualifica di statista. Dello statista gli mancavano l'altezza della visione, il fervore d'un progetto, all'occorrenza l'audacia del rischio. Caratteristiche, ad esempio, di un Cavour. La sua filosofia di governo era condensata nella frase secondo cui «è meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Andreotti è stato la quintessenza del politico, se volete del politico politicante, disinvolto fino al cinismo. Ma che livello, il suo, se confrontato con quello d'altri attuali esponenti della Nomenklatura. Era colto, d'una cultura vera, non quella imparaticcia cui deputati e senatori attingono occasionalmente per simulare d'essere ciò che non sono. Ha dimostrato eccezionale pazienza nel subire con compostezza un insistente calvario giudiziario, l'alternarsi di condanne e assoluzioni per reati gravissimi. Un giorno mi disse che senza i diritti d'autore non avrebbe potuto sostenere le spese legali dei numerosi processi, solo le copie di quelle migliaia o decine di migliaia di pagine costavano una fortuna.
Tanti esponenti del mondo politico e tanti italiani comuni hanno pensato e continuano a pensare tutto il male possibile di Giulio Andreotti. Per questo riguardo messo un po' in imbarazzo dal famoso detto secondo cui a pensar male si fa peccato, ma il più delle volte s'indovina. Fu costante bersaglio del sistema mediatico - nel cinema, nella televisione, nei quotidiani - peraltro assecondandolo. Si prestò nel film Il tassinaro con Alberto Sordi a una comparsata che il banchiere Cuccia avrebbe di sicuro disdegnato. Credo che la sua fede religiosa, un po' ostentata nella ritualità, fosse autentica, e che Montanelli fosse stato malizioso osservando che «De Gasperi dialogava con Dio, Andreotti col prete». Comunque Andreotti non se ne adontò, dialogare col prete non era per lui, universitario cattolico già in tempo fascista e frequentatore assiduo dei palazzi vaticani, un difetto, era un pregio. E osservò sommessamente che a lui il prete rispondeva, quasi sospettando che Dio non rispondesse a De Gasperi.
Nel lascito di Andreotti c'è tutto. La diga democristiana del 18 aprile 1948 e degli anni successivi contro la minaccia comunista, la diffidenza per il centrosinistra, poi la «non sfiducia» berlingueriana, infine i voti contrastanti, da senatore a vita sul governo Prodi: cui una volta diede la fiducia, e un'altra la negò. Le contraddizioni imbarazzavano un De Gasperi, non un Andreotti. Sulla cui figura i moderati italiani, a cominciare da Silvio Berlusconi, furono e ritengo siano tuttora lacerati. Come ideologo e militante dell'anticomunismo - nei tempi della guerra fredda - Andreotti merita la loro approvazione. Ma poiché personificava la prima Repubblica corrotta, volubile, instabile, rissosa, cancellata da Tangentopoli fu un modello da rifiutare. Molti frequentatori del Palazzo si sono proclamati eredi della Dc, auspicandone la resurrezione. Probabilmente Andreotti, che aveva grande fiuto politico, non ha mai condiviso queste speranze.

La prima Repubblica è morta, la Dc è morta, adesso è morto anche il loro campione, passato dal prete a Dio.

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