Le cose che non servono a Lampedusa

Quante proposte inutili dopo la tragedia. Dal Nobel per la pace alla cittadinanza ai morti: zero concretezza, tanta retorica

Le cose che non servono a Lampedusa

Come diciamo in Italia? Serve il morto, perché finalmente ci si accorga del problema. A Lampedusa ne abbiamo duecento e pare che il problema esploda adesso. Ma è incredibile. Ma è scandaloso. Il flagello dell'immigrazione disumana, con la sua infinita catena di lapidi senza nome, dura da più di vent'anni. Da troppo tempo Lampedusa per noi non è più un punto geografico, una remota isola in mezzo al Mediterraneo, ma un luogo impenetrabile dell'anima, dove si accatastano imbarazzi, sensi di colpa, pietà, ma soprattutto tanta impotenza. Lampedusa non è emersa l'altro giorno dalle profondità marine, come un vulcano che di punto in bianco si metta a eruttare sofferenze e dolore: Lampedusa, con tutti i suoi significati epocali, sta lì ormai da tempo immemorabile.
Eppure, un barcone dei miserabili va a fondo, il numero dei morti è più sostanzioso del solito, allora possiamo finalmente parlarne. Il rito è stanco e vuoto, ogni volta finisce allo stesso modo. Sull'isola sbarcano le troupe televisive, i talk-show improvvisano i loro studi notturni con riflettori potentissimi, quattro pescatori vengono reclutati per testimoniare l'orrore, il sindaco lancia le sue grida di recriminazione, ma lo Stato dov'è, poi bisogna solo aspettare: pochi giorni, prima che cali di nuovo l'oblìo. Fino al prossimo barcone colato a picco, però dai duecento morti in su, quando tutti fingeremo di apprendere che Lampedusa è un problema.
Cosa resterà, anche stavolta? Resterà il solito ciarpame sguaiato della nostra sensibilità ferita, ma totalmente inutile a risolvere il dramma. Come sempre. Possiamo agevolmente annotare le dieci cose che neppure stavolta sono servite a Lampedusa. Che non cambieranno nulla dell'andazzo, che non incideranno mai sull'immane problema.
La prima: la commossa visita di Barroso, annunciata per domani. I vertici dell'Europa devono smetterla, almeno per rispetto, di scoprire Lampedusa ad ogni naufragio. Non serve che i potenti del nostro continente scendano a lacrimare in loco, prima di girarsi puntualmente dall'altra parte, al grido molto umano e solidale se la sbologni l'Italia, questa grana. Serve solo che una buona volta l'Europa consideri il feroce mercato di disperati come una propria priorità, affrontandola seriamente e veramente, risparmiando pure sul volo ufficiale da Bruxelles. Per il momento, hanno deciso solo di rinviare la discussione.
La seconda: il premio Nobel a Lampedusa. Certo è un bel gesto, nessuno lo nega. Ma se è un modo elegante per mettere tranquillo il mondo intero, sciacquandosi la coscienza con il prestigioso riconoscimento, Lampedusa può farne a meno. Lampedusa non ha bisogno di premi e di medaglie: ha bisogno di non essere più un'isola sperduta, l'isola che non c'è.
La terza: certo, ogni volta che un rottame affonda dobbiamo abrogare la Bossi-Fini. Dannazione, abroghiamola: però facciamo un salto di qualità, passando dal comodo slogan perbenista a un'altra legge. Perché sia chiaro: quando si gioca sulla pelle di donne e bambini, una brutta legge è sempre meglio di nessuna legge.
La quarta: basta, per favore basta andare in televisione urlando che «questo non è un problema solo di Lampedusa». Ci fa sentire bene berciare questa ovvietà, ma è fuffa. Così come lo è, a pieno titolo, il solenne proclama di Letta: quei morti ora sono cittadini italiani. Singolare: bisogna morire, per diventare italiani. Da vivi sono clandestini.
La quinta: le alte personalità dello Stato che approdano per manifestare il proprio sdegno. L'altro giorno la Boldrini, con il faccino contrito e l'anatema liso di tutte le tragedie: «Mai più, mai più». Presidente, succede da vent'anni e succederà per altri venti, con una classe politica di anime belle che quando torna a Roma ha tutt'altro per la testa.
La sesta: i dannati eufemismi. L'ultimo, di nuovo conio, è il corridoio umanitario. Nessuno sa cos'è, tutti lo pretendono. Bisogna sapere che nella realtà significa aprire le frontiere, andarli a prendere nei loro inferni e portarli qui tra noi. Davvero lo vogliamo? Davvero ce lo possiamo permettere?
La settima: le partite della nazionale a Lampedusa. Nobile l'intenzione, i simboli contano, ma ormai Lampedusa sta affondando, nelle nobili intenzioni.
L'ottava: un minuto di silenzio nelle manifestazioni sportive. Idem come sopra. Sarebbe ora di urlare e sbraitare, incavolati come iene, altro che silenzio.
La nona: le promesse solenni. «Questa volta chiederemo a gran voce che l'Europa si faccia carico», eccetera, eccetera, eccetera. Non se ne può più. Facciamolo, una buona volta. Se ne siamo capaci, se ne abbiamo la forza. Altrimenti meglio stare zitti nella nostra pochezza.


La decima: le corone di fiori in mare. A furia di toccanti cerimonie, il Mediterraneo sta diventando anno dopo anno un grande giardino acquatico. Forse non l'abbiamo ancora capito, ma a Lampedusa serve altro: niente fiori, solo opere di bene.

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