Addio al cardinale del dialogo

Quando era ancora arcivescovo di Milano, ma già sognava di ritirarsi a Gerusalemme per tornare ai suoi studi biblici, un tremore sospetto aveva cominciato ad abitare la sua mano. «È un inizio di Parkinson, un piccolo segnale del Signore che comincia a bussare alla porta» aveva detto ai suoi collaboratori per spiegare l'anomalia, come se fosse la variante difficile di un verso di cui offrire l'esegesi. Era preciso e franco, il cardinale Carlo Maria Martini, morto a ottantacinque anni nella casa di riposo per anziani gesuiti Aloisianum di Gallarate, alle porte di Milano.
La precisione del filologo e la franchezza dell'uomo si mescolano. Idee chiare e a volte controverse anche in temi spinosi e ore difficili. Come gli ultimi momenti della vita terrena, che ha vissuto con granitica lucidità, sfiorando in prima persona i confini tra il no all'eutanasia e la rinuncia all'accanimento terapeutico. Ha incontrato faccia a faccia la fine della vita di cui aveva scritto tante volte, sussultando dentro il magistero della Chiesa.
«È rimasto lucido fino all'ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico» racconta il suo medico Gianni Pezzoli, neurologo che da anni lo aveva in cura e che ha seguito il suo aggravarsi dopo un'ultima crisi, cominciata a metà agosto. «Dopo un episodio di disfagia acuta - entra nel dettaglio Pezzoli, responsabile del Centro per la malattia di Parkinson - non è stato più in grado di deglutire nulla ed è stato sottoposto a terapia parentale idratante. Ma non ha voluto nessun altro ausilio: né la Peg, il tubicino per l'alimentazione artificiale che viene inserito nell'addome, né il sondino naso-gastrico». Una sintesi: «Ha rifiutato tutto ciò che ritiene accanimento terapeutico».
Pro veritate adversa diligere, per la verità amare le avversità, era il suo motto episcopale. Ha scritto molto, moltissimo, meditazioni ed esercizi, testi scientifici come corsi di studi biblici e approfondimenti sui papiri Bodmer, e poi opere di divulgazione che subito diventavano best sellers. Amato dai cattolici e anche dagli atei, per i quali a Milano aveva voluto la Cattedra dei non credenti, in cui erano stati i non credenti a salire come in cattedra.
Nato a Torino il 15 febbraio del 1927, già a nove anni comunica ai suoi familiari la decisione di diventare gesuita. Passa ancora qualche anno prima che quella sua certezza possa diventare realtà, ma a 17 anni Carlo Maria fa il suo ingresso nella Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, dove studia filosofia e teologia. Nel 1952 viene ordinato sacerdote. Nel 1958 si laurea in teologia fondamentale all'Università Gregoriana di Roma con una tesi sulla Resurrezione. Prosegue poi gli studi in Sacra Scrittura, fino a diventare uno dei più noti esperti della materia. Nel 1962 gli viene assegnata la cattedra di Critica testuale al Pontificio istituto biblico di Roma. Ne diventa rettore. Nel 1978 diventa rettore della Pontificia università gregoriana.
Una vita che sembrava destinata allo studio e alla preghiera. Ma è a quel punto che interviene la scelta a sorpresa di Karol Wojtyla. Papa Giovanni Paolo II lo vuole come pastore, per guidare una delle diocesi più importanti del mondo. Era la metà di dicembre del 1979, il Papa andò in visita alla Gregoriana, si fermò a cena con il rettore e con i suoi collaboratori. «Fui molto stupito della nomina, che mi presentò in gran segreto, alcuni giorni dopo, un inviato della Congregazione dei Vescovi. Chiesi qualche giorno di tempo per riflettere» è il racconto che molti anni dopo ne ha fatto l'ormai arcivescovo emerito di Milano, città di cui è stato pastore dal 1979 al 2002, oltre vent'anni. «Non so come andare incontro alla gente» aveva confidato al Papa che voleva proprio lui, schivo e dall'aria austera, come guida dell'ampio gregge milanese. «Sarà la gente che verrà incontro a lei» lo aveva confortato Woytjla.
Quando si avvicinò il settantacinquesimo compleanno, l'età che per i vescovi significa pensione, fu lui a chiedere di essere sollevato dall'incarico. E non per formalità. Aveva in mente di tornare ai suoi studi, a Gerusalemme. «In questi anni voi mi avete fatto sentire un “ricco” - aveva confidato in quei giorni ai suoi sacerdoti -, ho avuto autisti, macchine, segretari, persone che mi servivano. Tutte cose alle quali non ero abituato. Ora sento il bisogno di distaccarmi da tutto questo...». In Terra Santa era poi andato davvero.

Ma pochi anni dopo, nel 2008, era stato costretto a tornare: il Parkinson bussava sempre più forte. Lunedì, subito dopo i funerali, sarà sepolto, come da sua volontà, nel Duomo di Milano: in una tomba vuota sulla fiancata sinistra della cattedrale.

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