La svolta (e l'archiviazione del governo Bersani) arriva a sera, quando Enrico Letta parla davanti ai microfoni del Quirinale, prende atto «con rammarico» dei no arrivati alle proposte del Pd e apre al governo del presidente: «Non mancherà il nostro supporto responsabile alle decisioni che Napolitano prenderà».
Ha resistito fino all'ultimo, davanti al pressing crescente. «Alla fine, nello stallo creato dal no di Berlusconi ad un governo del presidente, l'ipotesi meno pazzesca è la mia: quella che Napolitano mi rinvii alle Camere. E lì i voti posso trovarli», ragionava Pier Luigi Bersani con i suoi ancora ieri mattina. Una posizione perfettamente corrispondente a quello che la delegazione di Sel, guidata da Nichi Vendola, è salita a dire al Colle: «La situazione più idonea a traghettare l'Italia fuori dall'avvitamento e dal pantano in cui si trova è conferire l'incarico a Bersani che ha incarnato con coraggio la necessità di dialogo con la domanda di cambiamento».
Ma la verità, che Bersani ha scoperto a sue spese nelle ultime 24 ore, è che - a parte i fedelissimi del «Tortellino magico», e gli amici di Sel - nel Pd nessuno più era disposto ad immolarsi sulla parola d'ordine «o io o elezioni». E che da tutti i maggiorenti del Pd (a molti dei quali ha dato più di una ragione per avere il dente avvelenato con lui, dalla vicenda delle candidature alle Politiche fino alla scelta dei presidenti delle Camere, e delle cariche parlamentari) arrivava un pressing compatto: «Non possiamo dire no al presidente e aprire la strada al voto in queste condizioni».
Massimo D'Alema (tornato a Roma dalla Francia per seguire gli sviluppi della crisi, e in frequente contatto con il Quirinale) giovedì sera è sembrato assai pessimista sulla situazione: «Mi pare che si stia combinando un gran bel disastro». E l'impressione di chi lo ascoltava è stata che si riferisse proprio alle ultime mosse del segretario Pd. Dario Franceschini e lo stesso Letta (che qualcuno, nel cerchio magico bersaniano, ha già ribattezzato «Bruto e Cassio», tanto per dare un'idea del clima interno) si sono adoperati a convincere Bersani a non continuare a chiudere ad eventuali «piani B». Anche perché «con la mossa di oggi, Berlusconi ha messo il cerino nelle nostre mani, dando la disponibilità a sostenere persino il governo Bersani, e se non cambiamo linea ci bruciamo noi le mani», ragionava un franceschiniano. Paolo Gentiloni, ore prima di Letta e delle sue dichiarazioni al Colle, annunciava che «il Pd dirà sì al governo del Presidente», spiegando: «I patti erano chiari: sostegno a Bersani finché è in campo, ma dopo di lui non c'è il voto».
Intanto Piero Fassino provava a convincere i bersaniani che era il momento di fare «un passo di lato» e giocare una carta spiazzante: Matteo Renzi. L'unico, secondo questi ragionamenti, in grado di mettere in piedi un governo forte, di chiedere al Pdl di appoggiarlo e di mettere in crisi anche i grillini. Una proposta esplicitata in radio da Debora Serracchiani: «Il piano B? Si chiama Matteo Renzi: non so se lui accetterebbe, ma il Pd deve spendere il suo nome». Violente le reazioni dei bersaniani: «Non esistono piani B, sono dichiarazioni del tutto inopportune». Mentre Matteo Orfini bollava come «follia» l'ipotesi. Lo stesso Renzi, peraltro, faceva sapere che non è nei suoi piani: «Non ci penso proprio», giurava a chi lo interpellava.
Per il sindaco di Firenze, lo scenario ideale rimane quello di sempre: un governo «di scopo» che faccia la riforma elettorale e resti in carica fino all'autunno, o al massimo alle elezioni europee, mentre lui lavora a preparare una campagna elettorale capace di sfondare in territorio Pdl (vedi la prossima partecipazione ad Amici su Mediaset) e grillino. Nel frattempo, però, in casa Pd è saltato il tappo Bersani e scoppiata la babele. E ieri sera si annunciava una Direzione a inizio settimana, per la resa dei conti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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