Roma - Monti, pressato da stampa e partiti, accende il faro sui tagli alla spesa. Non passa giorno senza che studiosi, economisti e pure autorevoli membri della «strana» maggioranza, scuotano il governo: basta tasse, ora si riducano le spese. Persino il ministro Passera ieri ha invocato la cura dimagrante per la pubblica amministrazione: «È chiaro che ci sono resistenze ma sulla spesa pubblica ho la sensazione che ci sia grande disponibilità, grande voglia». E ancora: «Vedo che molte idee stanno venendo fuori: è chiaro che ci sono resistenze, bisogna dire dei no, bisogna dire dei non più e che d’ora in avanti è un’altra cosa».
Sembra facile, invece non lo è. Molti ministeri, infatti, frenano, denunciando che già negli ultimi anni Tremonti ha usato l’accetta. Inoltre si racconta di qualche frizione tra i tecnici competenti a gestire la spending review, ossia la ricognizione di tutte le spese dello Stato. Della questione, da mesi, si stanno occupando il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda; il viceministro dell’Economia, Vittorio Grilli e - ma solo marginalmente - il ministro per la Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi. E si vocifera che tra Giarda e Grilli non ci sia totale sintonia. Risultato: ballano cifre che non vengono confermate e, di fatto, il governo sembra muoversi con tali piedi di piombo da apparire quasi immobile. Non trova riscontro, infatti, l’ultima voce secondo cui il premier si aspetterebbe un risparmio di 20-25 miliardi di euro.
In ogni caso entro fine mese dovrebbe planare in Consiglio dei ministri la tanto evocata spending review che, tuttavia, non è una mappa dei possibili tagli ma soltanto la fotografia delle spese totali della macchina pubblica. Certo, verranno individuate delle «criticità» su cui intervenire ma la decisione su dove e quanto tagliare è ancora molto lontana. A questo proposito il ministro Giarda avrebbe chiesto a Monti l’istituzione di una task force per individuare dove utilizzare le ulteriori sforbiciate. Dev’essere Palazzo Chigi, e in ultima analisi lo stesso premier, a stabilire dove tagliare.
L’operazione pare complicatissima anche perché qualche ministero lamenta di essere già arrivato all’osso dopo i tagli lineari di tremontiana memoria. Più che il ministero dell’Interno, che pare essersi messo di buzzo buono per razionalizzare le proprie uscite, in estrema difficoltà sarebbero i dicasteri degli Esteri e quello della Difesa. I capitoli principali riguardano due voci: spese per il personale (la cui cifra si aggira attorno ai 100 miliardi l’anno) e spese per beni e servizi (il cui costo ha sfiorato i 140 miliardi di euro). L’amministrazione statale occupa circa 2 milioni di persone che svolgono attività nei campi più disparati: impiegati nella scuola, nelle cancellerie dei tribunali, nei penitenziari, nei vigili del fuoco, negli enti pubblici territoriali. Ma su questo fronte si sottolinea che già si è risparmiato di molto con il blocco degli stipendi pubblici, il blocco delle nuove assunzioni, la riduzione della spesa sanitaria. Ma le uscite - seppure non aumentino - toccano la vetta di circa 727 miliardi di euro l’anno.
Si può ridurre ancora? Sì, si può. E lo ammette anche il ministro Passera secondo cui «c’è spazio per ridurre costi inutili delle pubbliche amministrazioni. Per esempio ci sono Regioni meno efficienti che debbono allinearsi alle migliori performance di quelle più efficienti nella sanità». E poi gli immobili: molti uffici potrebbero essere accorpati e i restanti messi in vendita. Ma Giarda vuole che sia Monti a decidere se colpire la sanità piuttosto che la scuola; le prefetture piuttosto che le caserme; le carceri piuttosto che i palazzi di giustizia.
Quello che sembra certo è che, dagli eventuali risparmi, non verranno tesoretti per ridurre la pressione fiscale.
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