Roma «Sei pronto?». «Per cosa?». «Per la rivoluzione liberale». Giovanni Orsina sorride. «In effetti non so cosa mettermi». Ha 44 anni, più della metà passati a sentirsi liberale, liberista e libertario. Insegna storia contemporanea alla Luiss. È vice direttore della School of Government dello stesso ateneo e direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. È stato una delle anime di Ideazione. L'ultimo saggio è una biografia di Malagodi. Come tanti è invecchiato sognando che in questo dannato paese lo Stato la smettesse di regalare a clientes e amici soldi e privilegi, facendo poi pagare a tutti gli altri il conto. Neppure i tecnici lo hanno convinto. Non ci sperava.
Berlusconi torna e scommette ancora sulle riforme liberali. È troppo tardi?
«Dipende. Per chi è troppo tardi? Per me e per te sì, siamo vent'anni più vecchi. Per Berlusconi? È una domanda che si sarà fatto anche lui. Per l'Italia? Magari si facessero. La verità è che la storia non dà quasi mai appuntamenti precisi».
Perché i liberali perdono sempre?
«Dici?».
Sembra?
«Sì e no. Nel discorso pubblico il liberalismo è molto più presente. In parte anche per merito di Berlusconi...».
Si, però i liberali fanno sempre i congressi nella cabina telefonica.
«A parte che le cabine telefoniche non ci sono praticamente più. Ti faccio una sorpresa: leggiti questi dati».
Che roba è?
«Gli studi elettorali dicono che il 30 per cento degli elettori si definisce, tra le altre cose, liberale».
Tra le altre cose?
«Sì. Alla domanda di dare una o più definizione della propria identità politica il 30 per cento risponde anche liberale. A destra si arriva al 50 per cento».
E alla domanda secca?
«Solo il 4 per cento degli elettori. Sembra poco ma non lo è. Faccio notare che il 13 per cento si definisce moderato e il 5,8 democratico-cattolico. Il liberalismo è come se fosse la base per diversi piatti. E questo è un punto di forza».
Quindi i liberali hanno vinto?
«Purtroppo no. In questi anni si è parlato tanto di liberalismo ma alla fine senza risultati. Chiacchiere tante, fatti pochi. Il risultato è che l'idea si è deprezzata, svilita, potrei usare un'altra parola ma forse qui non è il caso. Prova a parlare in giro di liberalizzazioni, sentirai gente che urla: no, ancora. Solo che poi non è che sono state fatte davvero. Conosco tanti tuoi colleghi che se parli di riforme costituzionali mettono le mani alla pistola. Ma anche quelle mica le abbiamo fatte. Stiamo con un welfare grasso che continua a arricchire i furbi e lasciare nudi i deboli. C'è una burocrazia che ti chiede il certificato anche per andare in bagno. L'unica cosa di cui ci ricordiamo sono le tasse, ma quelle per chi le paga sono davvero difficili da dimenticare».
Pessimista.
«Sto invecchiando. A vent'anni era più facile. Vent'anni dopo anche i tre moschettieri si erano stancati di aspettare».
E se uno dovesse riprovarci ancora che possibilità ha?
«Uno tipo Berlusconi?».
Uno che va davanti agli italiani e dice: diamo all'Italia un futuro liberale.
«Guarda. Come ho detto la parola è inflazionata. Ma c'è un elemento su cui si può fare leva. Gli italiani non credono nello Stato».
Non ci credono ma molti ci campano.
«Non c'è dubbio. È il nostro paradosso ed è anche il motivo per cui diventa difficile poi tagliare davvero certi privilegi e interessi diffusi. Ma è anche vero che tanti, anche quelli che ci campano, diffidano della politica. È un sentimento non liberale, ma pre-liberale.
Berlusconi si è scusato per non aver realizzato la rivoluzione liberale?
«In politica, come in amore, non bisognerebbe mai dire mi dispiace».
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