L'America si ricorda di avere un nemico

Il terrorismo entra in una campagna elettorale dominata finora solo dalla crisi economica

L'America si ricorda di avere un nemico

Quello che non c'era c'è. L'America sotto attacco, di nuovo: il terrorismo che odia, colpisce, uccide. Un ambasciatore ammazzato porta gli Stati Uniti indietro fino al 1979, fino alla crisi di Teheran, fino a Jimmy Carter. Brutti ricordi. È il passato che bussa ancora. L'America in queste ore sa che per quanto inutile ed eccessivo sia, il film anti Maometto è una scusa: chi ha assaltato il consolato di Bengasi e ucciso s'era preparato da tempo e aspettava un pretesto. Al Qaida o quello che ne resta ha voluto ricordare a Washington che la guerra dichiarata l'11 settembre 2001 non è finita. È una sveglia, uno schiaffo, una batosta: un Paese che sta vivendo una campagna elettorale in cui sembra contare soltanto l'economia, ora torna a parlare di sicurezza nazionale, di terrorismo, di battaglia all'estremismo islamico. Troppo silenzio, finora. E troppo silenzio all'inizio della giornata. C'ha messo una vita a rispondere l'amministrazione americana. Ore e ore di nulla: mentre le tv arabe e poi anche quelle occidentali mostravano già il cadavere dell'ambasciatore Chris Stevens, né la Casa Bianca, né il Dipartimento di Stato avevano detto una sola parola. Come se la botta fosse stata troppo forte e soprattutto inattesa. Panico, e con il panico lo sconcerto di un Paese che ha bisogno sempre di una risposta. Dov'era Obama? Dov'era Hillary Clinton? Sono state le domande che per diverso tempo sono circolate negli ambienti della politica, della diplomazia e dei media. Il presidente ha parlato dopo otto ore, un'eternità di fronte a un fatto del genere. E quando ha cominciato a parlare ha esordito male: «Gli Stati Uniti rispettano tutte le fedi, ma non c'è giustificazione a una violenza come questa». Avrebbe dovuto invertire l'ordine delle frasi. Prima la condanna, poi l'ecumenismo. Invece no. E questo, legato al primo comunicato dell'ambasciata Usa al Cairo, è sembrato troppo poco. Nella serata precedente la sede diplomatica americana in Egitto aveva criticato il film e non le reazioni islamiche: «Condanniamo ogni azione che ferisca i sentimenti religiosi di tutti, compresi i musulmani».

Un uno-due iniziale molle che ha lasciato l'America destabilizzata. Allora i paragoni con Carter, le prime accuse di debolezza. È qui che s'è inserito Mitt Romney. È qui che il caso Bengasi è diventato un tema di campagna elettorale. Perché il candidato repubblicano ha attaccato: «Gli Stati Uniti non devono mai scusarsi per difendere i propri valori. Guai a tollerare attacchi a cittadini americani. È vergognoso che la prima risposta dell'amministrazione Obama non sia stata quella di condannare gli attacchi contro le nostre missioni diplomatiche, ma di simpatizzare con chi ha attaccato».

Un colpo, sì. Un altro schiaffo al presidente. Ecco, avrebbe dovuto fermarsi qui, Romney. Una dichiarazione e via. Una critica e stop. Invece ha sbagliato anche lui: ha trasformato un vantaggio politico in un potenziale autogol. Perché a quel punto l'America aspettava il nuovo, annunciato, discorso del presidente. Che fa? Che dice? Attacca? Non attacca? Reagisce? Tollera? Nell'attesa di Obama, ha continuato il suo rivale, con un tono rischioso, perché dicendo che Obama simpatizza con gli estremisti islamici tocca un tasto che finora è sempre stato perdente contro la Casa Bianca: quello del presidente filo islamico.

L'intervento di Romney non è piaciuto. Tanto che in serata il presidente l'ha facilmente attaccato («prende la mira dopo aver sparato»). Persino una parte del mondo conservatore e repubblicano gli ha rinfacciato di voler usare la morte dell'ambasciatore Stevens come arma elettorale. C'è che l'ex governatore del Massachusetts è in difficoltà. L'effetto della sua uscita di ieri si vedrà nelle prossime ore. Così come si vedrà la reazione alla seconda parte della giornata di Obama, decisamente migliore della prima. Perché quando il presidente è tornato a parlare ha detto finalmente qualcosa: «Sarà fatta giustizia». Sono le stesse parole usate da George W. Bush l'11 settembre 2001. Dettaglio non irrilevante. Perché l'America ha bisogno di questo, vuole sapere che la morte dei cittadini statunitensi non resti impunita. La notizia dell'invio immediato in Libia di 200 marines è stata un altro segnale. Buono per l'America e anche per Obama, che nella lotta al terrorismo può vantare l'uccisione di Bin Laden. L'amministrazione ha sbagliato molto in questa storia. Ora cerca di riprendersi. C'è il ruolo dell'America nel mondo e c'è anche, molto più prosaicamente, il voto del 6 novembre.

La sicurezza nazionale non era un tema, adesso lo è. Cambia lo scenario e forse cambia anche un pezzo di campagna elettorale. Obama deve dimostrare agli Stati Uniti di saperli difendere. Romney deve provare a far capire che anche lui saprebbe farlo.

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