La situazione dell'Ilva, a Taranto e negli altri stabilimenti, è sempre più drammatica. Al di là del caso specifico, vengono al pettine le conseguenze sciagurate di decenni di politiche industriali che hanno destinato al settore enormi quantità di denaro pubblico, ponendo le premesse per il disastro attuale. Dietro alle inchieste in corso non ci sono soltanto ipotesi di comportamenti disinvolti da parte di taluni responsabili del gruppo, ma più in generale viene un'economia intrecciata con la politica e con l'amministrazione, senza che sia possibile riconoscere dove finisce una cosa e dove inizia l'altra. Dinanzi alle difficoltà della città di Taranto, che rischia la tenuta sociale, il governo sta meditando un intervento. Nelle prossime ore si avranno notizie più precise. È però importante che non si dia ascolto a chi vorrebbe porre rimedio alla situazione adottando ricette destinate a rendere ancor più torbidi i rapporti tra lo Stato e le imprese. Intervistato da Pubblico, il segretario della Fiom Maurizio Landini ha infatti suggerito di adottare in Italia la soluzione sposata in Francia, dove lo Stato ha prestato ben sette miliardi di euro alla Peugeot, alle prese con quella crisi dell'automobile che riguarda molti altri gruppi. Un simile modello di politica industriale è ingiusto, in primo luogo, e destinato a produrre solo disastri, in secondo luogo. È infatti moralmente ingiustificabile che si usino i soldi di chi produce ricchezza - siano essi imprenditori, operai o liberi professionisti - per dare un sostegno a un'azienda che è di proprietà di ben precise persone. Un prestito è un aiuto e allora bisogna chiedersi cosa vi sia di «sociale» nel sostenere un gruppo automobilistico che ancora oggi è in larga misura controllato da una famiglia, quella di Robert Peugeot, che detiene il trentaseiesimo patrimonio di Francia. Ma questo tipo di politica è pure sbagliata, perché per avere buone aziende è necessario che chi ha compiuto errori subisca le sanzioni del mercato. Lasciamo quindi stare il modello francese e, semmai, preoccupiamoci di soccorrere le famiglie di chi sta perdendo il lavoro: ben sapendo, comunque, che gli ex dipendenti di commercianti o artigiani si trovano a spasso senza alcun sostegno. Resta comunque una notevole differenza tra l'aiutare chi è in difficoltà e finanziare imprese allo sbando. L'altra soluzione suggerita da Landini è ancor più da contestarsi, perché egli propone che lo Stato - per un periodo più o meno temporaneo - acquisisca la società stessa. Benché non si sia ancora spenta l'eco degli scandali di Finmeccanica e benché si sia costantemente chiamati a far fronte agli innumerevoli disservizi di un parastato costoso e inefficiente (dalla Rai alle poste, dalle banche alle ferrovie), la Fiom suggerisce proprio un ritorno in campo dell'Iri: con il risultato che avremmo ulteriori imprese, oltre a quelle già nominate, sotto il controllo di partiti e politici. Aziende destinate a essere gestite male, come si è visto in passato, ma con la garanzia che, qualunque cosa succeda, saranno sempre i contribuenti a porre rimedio. L'errore di Landini è in parte comprensibile: di fronte alle difficoltà non si può stare con le mani in mano e il soggetto che più facilmente può intervenire, dato che usa soldi altrui, è lo Stato.
Il guaio è che quei soldi che si vorrebbero destinare al salvataggio dell'Ilva non scendano dal cielo, ma vengano da chi potrebbe realizzare benessere. Anzi: sempre più sono tolti a chi la ricchezza la produceva e oggi, afflitto da una tassazione senza eguali, sta meditando se chiudere o andarsene. Per salvare l'Ilva, insomma, rischiamo di crearne molte altre.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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