Una lobby di sanguisughe

Da Ciampi a Saccomanni, gli uomini di Bankitalia ostacolano la ripresa economica

Una lobby di sanguisughe

Nessuna ostilità, nessun pregiudizio nei confronti dei tecnici che assumono incarichi di governo. Non dubitiamo della loro preparazione e competenza. Di solito nei rispettivi mestieri eccellono. Ma la politica è un'altra cosa e richiede capacità diverse da quelle necessarie per svolgere professioni liberali, accademiche e dirigenziali. Per cui non comprendiamo i motivi per i quali, da un po' di tempo, i partiti deleghino a docenti e manager vari poteri decisionali che di norma assegnavano ai propri uomini maggiormente rappresentativi ossia in grado di avere una visione politica dei problemi nazionali. Un mistero.
Forse il Parlamento non esprime più personalità di spicco attrezzate per ricoprire ruoli fondamentali? Può darsi. Ma ci sembra una spiegazione debole: Senato e Camera non sono mai state fucine di geni eclettici, ciononostante nella Prima Repubblica, quando i governi duravano solo qualche anno, talvolta pochi mesi, i notabili - specialmente della Dc - saltabeccavano da un ministero all'altro: da quello della Difesa a quello dell'Interno, da quello della Marina mercantile a quello dell'Agricoltura, e in ogni dicastero si trovavano a loro agio, ottenendo risultati non peggiori rispetto ai successori cosiddetti esperti.
Probabilmente il ricorso ai tecnici sarà una moda. A parte Guido Carli, che lasciò il posto di governatore di Bankitalia e poi fu titolare del ministero del Tesoro (il quale meriterebbe un discorso a parte dati i suoi meriti), il primo grande banchiere cooptato dalla politica fu Carlo Azeglio Ciampi, anch'egli proveniente dai vertici della banca centrale. Cominciò in veste di ministro economico, poi divenne premier, infine addirittura capo dello Stato. Dovendogli dare un voto in pagella, saremmo imbarazzati, per cui ce ne asteniamo. Diciamo soltanto che il suo medagliere non è abbagliante.
Ciampi sarà ricordato come colui che inaugurò il festival dei tecnici, culminato con l'avvento dell'esecutivo di Mario Monti, interamente costituito da personaggi estranei al Palazzo (non eletti dal popolo) la cui attività, più o meno meritoria, è stata comunque inficiata dai partiti della maggioranza, come al solito influenzati da due fattori negativi: la paura di perdere suffragi, che agisce da freno quando si tratta di approvare provvedimenti ritenuti impopolari; la tendenza a lasciarsi manovrare dalle lobby e dalle corporazioni, abili nella difesa di interessi particolari ovvero in contrasto con quelli generali e col bene comune.
Sappiamo quale sorte sia toccata al bocconiano e ai suoi colleghi, ma sappiamo anche che il nostro Paese non ha tratto grandi benefici dalla loro gestione. L'esperienza però non insegna niente, anzi, induce sovente a ripetere gli stessi errori. Difatti, Enrico Letta, non appena ricevuto l'incarico di presidente del Consiglio, ha chiamato a dirigere il ministero più prestigioso, quello dell'Economia, un altro tecnico, Fabrizio Saccomanni, guarda caso ex direttore di Bankitalia, serbatoio inesauribile di cervelli sopravvalutati. Viene il sospetto che l'ingaggio di questo degnissimo signore sia avvenuto tramite una catena di Sant'Antonio: Mario Draghi, ex governatore di Bankitalia, attuale numero uno della Bce, avrà fatto il nome del collega a Giorgio Napolitano, il quale l'avrà girato a Letta e il cerchio si è chiuso.
Questo non ci sorprende né scandalizza. Il problema è un altro. Che senso ha per gli italiani andare a votare se poi gli uomini che comandano sono reclutati non fra gli eletti, ma fra banchieri e professori il cui talento in campo politico è tutto da dimostrare? In democrazia, inoltre, è buona norma che siano i cittadini a selezionare, col proprio consenso, il personale da mandare nella stanza dei bottoni. Non crediamo più nelle ricette democratiche? Nell'eventualità, studiamone e diamocene delle altre, se siamo all'altezza di idearne di nuove, sennò teniamoci le vecchie senza aggirarle con escamotage puerili.
È ancora niente. Non ce ne voglia Saccomanni. Non è in discussione la sua scienza, bensì la sua adattabilità a un programma di governo che contiene due punti irrinunciabili per una componente della maggioranza: il Pdl, che ha condizionato l'appoggio a Letta all'abolizione dell'Imu sulla prima casa e alla rinuncia all'aumento dell'Iva. Non è una nostra opinione, ma un dato storico. Talché egli adesso non può inchinarsi al Fondo monetario (cui l'Italia non ha chiesto prestiti) che pretende il mantenimento della tassa sull'abitazione, incitandoci piuttosto a tagliare la spesa pubblica, operazione che non sappiamo fare (chiedere informazioni in proposito a Monti).
Comprendiamo.

Il ministro è avvezzo a ragionare da tecnico e non da politico, pertanto davanti ai conti è incline a farli quadrare, magari azionando la leva fiscale e trascurando i contraccolpi sociali. Questo è il guaio. In politica non sempre due più due fa quattro: talora fa tre.

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