RomaUna riforma della giustizia? Certo, che male c'è, si chiede Giorgio Napolitano, qual è lo scandalo di un «ridistanziamento tra politica e diritto», qual è il problema a fermare la guerra dei vent'anni, un conflitto che ha provocato «conseguenze pesanti per la vita democratica»? Semplice: il problema sono le toghe, che spesso non hanno «senso del limite». I magistrati dovrebbero avere «un'attitudine meno difensiva», perché di una ristrutturazione «la giustizia ha bisogno da tempo». Separazione delle carriere, nuovi compiti del Csm. Non è materia eversiva, nulla che non possa essere esaminato dal Parlamento, perché «quelle riforme sono perfettamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana». Invece niente, la casta è chiusa a riccio, siamo sempre al muro contro muro.
Dopo i voti in giunta e il videomessaggio del Cavaliere, Enrico Letta giovedì ha fatto quadrato attorno ai giudici: «Siamo in uno Stato di diritto, non esistono persecuzioni». Renato Brunetta, capogruppo del Pdl alla Camera, gli ha scritto una lettera aperta. «Caro Enrico, sii più prudente, le tue parole perentorie si scontrano con la realtà e il buon senso. Anzi, sono proprio false. Numerose sentenze della Corte europea dei Diritti dell'Uomo stabiliscono l'esistenza di una violazione contro il diritto a un giusto processò. Studiosi non certo berlusconiani affermano che la politicizzazione della magistratura, in particolare delle grandi sedi di Milano, Roma, Napoli e Palermo, fa emergere figure di magistrati caratterizzate da un mix di impunità, mediatizzazione estrema e politicizzazione senza simili nel mondo occidentale».
Ma se il premier vuole «difendere l'autonomia» dei giudici, per il presidente l'autonomia va conquistata sul campo, «con un comportamento davvero indipendente da ogni connotazione particolaristica o partigiana, di dedizione esclusiva all'interesse generale del Paese e delle sue istituzioni democratiche». Certo, riconosce Napolitano, si tratta di un lavoro difficile e talvolta pericoloso: «Non c'è nulla di più impegnativo e delicato che amministrare giustizia, garantire la rigorosa osservanza delle leggi e il severo controllo della legalità che rappresentano un imperativo assoluto». E, aggiunge senza nominarlo, ha sbagliato Silvio Berlusconi a sfottere gli impiegati pubblici. «Quel titolo non dovrebbe mai essere usato in senso dispregiativo».
Le concessioni però finiscono qua. Del resto, parlando alla Luiss in un convegno di studi dedicato a Loris D'Ambrosio, il capo dello Stato non può dimenticare la persecuzione subita fino alla morte per infarto dal suo consigliere giuridico da parte della procura di Palermo. «Loris è diventato vittima di quello che il professor Fiandaca ha chiamato un perverso gioco politico-giudiziario e mediatico, la cui impronta mistificatoria si è fatta risentire proprio oggi, forse in non casuale coincidenza con questo incontro». Il riferimento è ad articoli pubblicati sul Fatto e su Repubblica su presunte pressioni del Colle per il trasferimento dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia via da Palermo.
Ma il punto è che politica e magistratura devono smettere «di concepirsi come mondi ostili». E soprattutto basta con il pm d'assalto. «L'equilibrio, la sobrietà, il riserbo, l'assoluta imparzialità, il senso della misura e del limite - elenca - sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza». Riforme, dunque. Napolitano le chiede tra sette anni.
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