Il problema del Pd è la trama. È come uno di quei romanzi in cui il plot narrativo diventa man mano che continui a leggerlo fastidiosamente incoerente. Non è colpa del partito. È che lo disegnano così. Tra tutti gli aspetti che stonano ce ne è uno che rischia di lasciare l'Italia in una situazione precaria, come se la politica continuasse a girare intorno al gorgo della crisi senza che i timonieri siano in grado di ritrovare la rotta. La contraddizione ha a che fare con le riforme costituzionali e in particolare con il presidenzialismo. Il Pd si dichiara riformista, però vede ogni cambiamento come lesa maestà. Sogna il futuro ma vive nel passato, con il terrore di abbandonare le sacre scritture del Novecento. Alcuni dei suoi leader si battezzano rottamatori, ma anche loro non buttano via mai niente. Il sistema elettorale che gli garantirebbe le maggiori possibilità di vittoria è quello francese, cioè il doppio turno, visto che è l'unico che può dare voce alle loro mille identità sui temi etici e economici. Eppure pretendono di prendersi quello che gli fa comodo senza accettare nessun compromesso sul resto, ossia il semipresidenzialismo. Questa non scelta a molti politologi appare come un consapevole autogol. Come mai allora Bersani e gli altri non cantano la marsigliese?
Paura? Idiozia? Masochismo? Qualcuno dirà che per storia e cultura la sinistra, cattolica e post comunista, ha la fobia del presidenzialismo. È quella storia dell'uomo forte (e nero). È la fede nel parlamentarismo. È che anni di opposizione gli hanno insegnato che va bene un partito «togliattista», tanto da inventarsi l'ossimoro del centralismo democratico, ma un governo forte è una disgrazia. Ancora peggio sono gli ex democristiani cresciuti a correnti e governi balneari. Diciamo, quindi, che sono allergici e si preoccupano per lo spirito democratico, ammesso che la Parigi e Washington non siano democratici. Solo che questi tesi non funziona tanto. Primo perché il Pd non è presidenzialista solo se vincono gli altri. E poi tutta la loro sensibilità democratica e parlamentarista si è dissolta con la storia di Monti. Il governo tecnico nasce quasi come imposizione di Napolitano. È una parentesi molto più lunga di una quaresima. Non ha mai avuto il riconoscimento del voto popolare. Si basa su un connubio bastardo tra berlusconiani e antiberlusconiani. Va avanti per decreti legge. Le due camere assomigliano a una pensione adriatica in bassa stagione. C'è chi spera perfino di allungare il mandato di Monti per editto regale. Non solo. Più che un semi-presidenzialismo si vive in una cultura politica da doppio-presidenzialismo (Giorgio più Mario). Insomma, se davvero c'erano motivi culturali e storici questi se li sono bruciati con l'appoggio incondizionato al governo dei tecnici. Non sono stati loro a dire che per salvarci dallo spread serviva una sorta di Cincinnato, insomma un dittatore a tempo determinato per battere la crisi?
Il sospetto è quindi che l'antipatia dei vertici del Pd per il presidenzialismo sia una questione di sopravvivenza. Primo. La sinistra italiana ha una difficoltà genetica a legittimare un leader più o meno carismatico, fosse pure un Hollande, riconosciuto da tutti. Appena c'è uno che vagamente può indossare quell'abito viene subito accoltellato dai suoi concorrenti. In questo momento poi ogni nome farebbe venire l'orticaria a Bersani e D'Alema, come alla Bindi o a Franceschini. Vendola, Di Pietro, Renzi, ancora Prodi, non sia mai Grillo. Chi? Nessuno di loro unisce. Ci sarebbe Monti, ma resta di un colore ambiguo e c'è il sospetto che il bocconiano resti destrorso nell'anima. Il presidenzialismo invece scatenerebbe la fantasia dei vari «partiti di intellettuali», dalla banda Repubblica a quella Moretti, dai «dandiniani» a Micromega, dal Fatto ai fazisti. Una tragedia per la vocazione un po' bulgara del Pd.
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