Roma - Ne uccide più la penna che la spada? Non è per niente convinto il pm Antonio Ingroia (nella foto), che non si sottrae e dichiara «spropositata» la detenzione per reati connessi all'attività dei giornalisti. Sulla vicenda di Alessandro Sallusti ha idee ben precise, il pubblico ministero palermitano, che vanno ben oltre il generico volterriano «disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo». Lo spiega al Giornale: «Fuor di scherzo, fuor di metafora, lasciando da parte la solidarietà umana, qui c'è in ballo una questione più grande». Una questione che attiene alla libertà di stampa e ai reati d'opinione, ma non solo. «Io dico che la detenzione non è una pena per nulla adeguata a questi reati che, in fondo, sono commessi con la penna... E percepisco con rammarico la distonia esistente tra l'eventuale offesa e la pena comminata».
Anche l'accusatore di Dell'Utri, l'implacabile mastino che indaga sulla misteriosa vicenda della trattativa Stato-mafia, pietra dello scandalo nel conflitto istituzionale che si è aperto sulle intercettazioni al Quirinale, tante volte attaccato dalle colonne di questo e altri giornali, trova ingiustificata e un po' paradossale la vicenda per la quale il direttore Sallusti rischia la galera. «Anch'io sono stato oggetto di attacchi che hanno messo in pericolo la mia reputazione, ho querelato, ho fatto causa civile per il risarcimento del danno - spiega - eppure continuo a ritenere sproporzionata la pena detentiva. Senza dubbio è più corretto intervenire con sanzioni pecuniarie e risarcimenti». Per Ingroia si tratta di norme la cui «origine risale al codice penale fascista, epoca nella quale c'era insofferenza verso la libera opinione. Certo, diverso è il caso in cui si offende l'onore e la reputazione altrui... Ma è per questo che bisogna cercare un equilibrio nuovo. Non è ammissibile che su un piatto della bilancia ci sia l'onore e la reputazione di una persona e sull'altro la libertà di chi offende. La libertà è un bene supremo».
Un Ingroia garantista, dunque, proprio alla vigilia del nuovo incarico in Guatemala? «La verità è che nella bagarre del dibattito pubblico si viene appiattiti su una sola dimensione, si resta attaccati alla maschera pirandelliana. Eppure nella mia cultura trovano posto in parti uguali tanto i principi comunemente definiti giustizialisti, quanto quelli di garanzia e di tutela dei diritti individuali». Dello stesso avviso di Ingroia è anche uno dei componenti togati del Csm, Paolo Corder. «In linea di principio, per reati connessi alla diffamazione il carcere non dovrebbe mai sussistere per una basilare questione di graduazione delle pene». Però, aggiunge, le sanzioni pecuniarie ci debbono essere, «ed eventualmente si può immaginare di renderle più pesanti o di utilizzare pene accessorie, come l'affidamento ai servizi sociali».
Altri sono i reati «molto più gravi» che hanno bisogno del carcere, insiste Corder, «anche se è comprensibile che, per l'offeso, sia grave il reato che lo colpisce». Come si rimedia all'ennesima stortura della legislazione italiana? Sia Ingroia che Corder non pensano al decreto-legge. «Sarebbe una forzatura - rileva Corder - ma se è un mezzo per dire fate presto, ben venga».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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